Memorie



Scontro tra due generali alleati: “Così scoppia la terza guerra mondiale…! ! !”

di Gianfranco Varvesi

Una sera di fine aprile del 1999, verso le 21,30 mi ha telefonato a casa il Segretario Generale del Ministero degli Esteri, chiedendomi di raggiungerlo subito nel suo ufficio. Non mi ha nascosto  la sua sorpresa nell’apprendere che mi sarebbero stati necessari circa venti minuti per recarmi alla Farnesina. “Come, sei già a casa? Bene ci vediamo domani mattina presto” fu la sua secca reazione.
            L’indomani ho appreso di essere stato designato a diventare il “Polad” (cioè il Political Adviser) dell’armata della NATO stanziata in Albania durante il conflitto del Kosovo. Dietro la decisione di nominare un italiano a quel posto vi erano considerazioni politiche rilevanti. Sia la volontà di partecipare alle operazioni militari preferendo un basso profilo, sia l’esigenza di valorizzare la nostra presenza diplomatica in sede internazionale e a sostegno degli sforzi umanitari che il governo di Tirana stava affrontando nell’ospitare migliaia di profughi.  Alla luce di queste considerazioni non vi erano margini per mie eventuali riserve.
            Recatomi subito a Bruxelles per i contatti del caso, ho avuto colloqui con il nostro Rappresentante Permanente presso la NATO e con alcuni colleghi della Rappresentanza (tutti cortesissimi e pronti ad offrirmi ogni sostegno ed informazione), con il Segretario Generale della NATO e, a Mons presso il quartier generale di SHAPE,  con il Generale statunitense Wesley Clark. Nel gergo della NATO, poco incline all’understatement, è definito il Comandante Supremo delle forze alleate in Europa, il "Supreme Allied Commander Europe" o più sinteticamente SACEUR. Prima dell’incontro mi era stato detto che da quando erano iniziate le operazioni militari contro la Jugoslavia e in particolare quelle su Belgrado, il Generale Clark si era fatto sistemare una brandina in ufficio sulla quale, ormai da giorni, si riposava solo per poche ore. Le voci raccolte si sono rivelate esatte. Sono stato ricevuto da un uomo stanco, tesissimo, e quasi preoccupato che il colloquio con me potesse distoglierlo, seppure per poco, dai suoi compiti strategici. Questo suo stato di tensione può aiutare a meglio comprendere gli avvenimenti che mi accingo a raccontare.
            AFOR, l’armata della NATO stanziata in Albania con il compito di aiutare le autorità albanesi e gli organismi internazionali a gestire il flusso dei profughi proveniente dal Kosovo, in realtà si stava preparando all’invasione della Jugoslavia di Milosevic, qualora le azioni aeree non avessero ottenuto la resa di Belgrado. Da un lato quindi azioni umanitarie, dall’altro preparazione di un attacco terrestre che, per fortuna, non è stato necessario, perché avrebbe avuto un costo in vite umane molto elevato. L’Intelligence (…così la chiamano) ci aveva informato che tutti i carri armati iugoslavi erano stati distrutti e che la fanteria alleata non avrebbe incontrato seri ostacoli. Ma, come si è scoperto solo alla fine del conflitto,  erano state bombardate solo sagome di legno abilmente posizionate dall’esercito di Belgrado, mentre l’artiglieria pesante era ben nascosta nelle grotte delle montagne che separano l’Albania dalla Jugoslavia di allora.  Parallelamente ad AFOR era stanziata in Macedonia la KFOR, la seconda armata della NATO, che progrediva lentamente nel Kosovo, man mano che le operazioni aeree liberavano il terreno dall’esercito jugoslavo.
            Altri quartieri generali della NATO erano coinvolti in quel conflitto in Italia, nel Regno Unito e in numerosi Paesi alleati. Ogni mattina, alle 9 in punto, vi era un collegamento, presieduto dal Generale Clark, con tutte le basi coinvolte nell’operazione Kosovo. Era quello un momento triste per un diplomatico, la cui natura professionale male recepisce relazioni sui bombardamenti effettuati nelle ultime 24 ore e la programmazione delle azioni successive. Mi consolavo pensando che eravamo lì per mettere fine a persecuzioni etniche di dimensioni sconosciute in Europa dai tempi dalla seconda guerra mondiale. Partecipavo a quelle video conferenze con sentimenti contrastanti, visto che nel tardo pomeriggio riemergevano considerazioni  amare, quando i Tornado, sorvolando l’Albania, si accingevano a compiere le azioni decise nella mattinata.
            La puntualità di quegli incontri, che si svolgevano dalle 9 precise fino alle 9,30, era dettata non solo dalle esigenze programmatiche delle operazioni militari, ma anche – e probabilmente soprattutto – dall’ingente costo dei collegamenti della rete operativa.
            Quale fu la nostra sorpresa una mattina del mese di giugno, divenuta poi un’indimenticabile mattina, nel sentire con petulante cadenza qualcuno che ci ripeteva che la conferenza stava per iniziare. Dieci lunghi minuti di attesa sono così passati, fra interrogativi e qualche timido sorrisino che nascondeva la preoccupazione che questa improvvisa assenza del Generale Clark suscitava in ciascuno di noi.
            Alle 9,10 è comparso il SACEUR. Il percorso fra la porta dello studio e la sua scrivania è stato martellato da un passo violento e quando, sedutosi alla scrivania,  si è rivolto verso la telecamera lo abbiamo visto nero in volto. Quei 10 minuti di attesa erano stati solo di preparazione a ciò che stava per accadere. Rivolgendosi direttamente al Comandante di KFOR, il Generale britannico Michael Jackson, gli ha chiesto conto della presenza russa nell’aeroporto di Pristina.
            Nella notte le forze governative di Belgrado si erano ritirate da quella base aerea e un contingente russo - costituito da poche decine di militari, ma comandato da un generale - vi era entrato. Con la mentalità ancora da guerra fredda, la presenza di militari russi è stata considerata dal Comandante Supremo delle forze alleate in Europa una minaccia all’intera operazione ed egli ha quindi ordinato - con quel linguaggio imperativo che solo i militari sanno avere in certe circostanze - di mandare via il contingente,  di occupare tutto l’aeroporto, di piazzare camion e carri armati sulla pista per impedire atterraggi di aerei russi.
            Da Tirana, ma presumibilmente da tutte le altre basi collegate, abbiamo ascoltato allibiti questo monologo. L’ordine era tassativo e proveniva da una così alta autorità militare della NATO. Tuttavia ci domandavamo in cuor nostro cosa sarebbe successo. Non c’è bisogno di conoscere la storia delle crisi balcaniche del XIX e del XX secolo per comprendere l’interesse russo verso quella regione e per prevedere una forte opposizione all’azione appena ordinata, e con tanta veemenza, dal Generale Clark. Del resto, considerazioni sulla rigida disciplina delle forze armate russe, i cui ufficiali più anziani erano stati formati ai tempi del regime sovietico, suggeriva ovviamente che il generale russo non avesse agito di sua iniziativa. E poi, perché un piccolo contingente era comandato da un così alto ufficiale, se non per sottolineare l’importanza attribuita da Mosca a quella presenza? E’ incredibile con quale velocità si siano susseguiti tanti pensieri  in quei pochi istanti critici. Pensieri in libertà, visto che era nella logica della catena di comando che la risposta fosse un “Signorsì” da parte del Generale Jackson.
            Ufficiale inglese, militare per tradizione familiare, noto per le sue azioni repressive  in Irlanda del Nord e in particolare per la tristemente famosa "domenica di sangue" di  Derry, il Generale Michael Jackson era dai suoi colleghi comunque rispettato, anche se non gli si risparmiavano nomignoli ("Macho Jacko" e altri collegati al suo amore per la più classica delle bevande scozzesi) e non si perdeva occasione per giocare sull’omonimia con quel cantante che allora era tanto di moda.
            La risposta da KFOR rimbombò come un tuono! Mi sembra che iniziò con un “Lei è matto!” per proseguire con “Ma vuole far scoppiare la terza guerra mondiale?”. Che l’epiteto iniziale vi sia stato o meno (ma direi proprio di si) è un fatto secondario poiché il tono esprimeva chiaramente tale concetto, cui si è aggiunto il netto rifiuto di obbedire agli ordini ricevuti. Il successivo scambio di battute fra i due alti ufficiali si è svolto in un crescendo che ha lasciato basiti tutti quelli che hanno assistito allo scontro.
            Quando è giunto il fatidico momento delle 9.30 il collegamento si è interrotto. Ho colto nei pochi ufficiali dello stato maggiore di AFOR che avevano seguito insieme a me a quella scena sguardi perduti per lo sgomento di chi avverte il contrasto fra le fondate perplessità e il forte senso della disciplina e del dovere. Ma qual è il dovere in simili circostanze ? Obbedire ciecamente ad un ordine o obiettare per evitare sciagure e crisi internazionali di portata immensa? Chi intravedeva la possibilità del Gen. Jackson davanti alla corte marziale e chi non sapeva cosa pensare. La nostra riunione si è così sciolta in un imbarazzato silenzio.
            Fino all’indomani non vi sono state notizie. Nulla è trapelato neanche dai contatti personali che ciascuno di noi aveva nei diversi centri decisionali.
            Il giorno dopo eravamo incollati al video in attesa del collegamento, iniziato puntualmente come sempre. Il Generale Clark  ha presieduto la riunione sereno e tranquillo come se nulla fosse accaduto ed ha illustrato la decisione di  consentire ai militari russi di restare in un’area ben delimitata dell’aeroporto, aggiungendo che russi e KFOR avrebbero collaborato lealmente. Dal canto suo Jackson, raccontando di aver già creato con il generale russo un’atmosfera amichevole, grazie anche ad una bottiglia di buon whisky, ha assicurato di aver concordato i termini delle loro rispettive aree di competenza.
            Abbiamo appreso poi che, terminato il primo collegamento, quello del terribile scontro fra i due generali, ognuno di loro si era rivolto ai propri superiori: Clark al Pentagono e ovviamente Jackson a White Hall¸ che la questione si era poi spostata alla Casa Bianca e al numero 10 di Downing  Street, e che il Presidente Clinton e il Primo Ministro Tony Blair avevano fra loro convenuto sull’opportunità di trovare una soluzione di compromesso con la Russia. La presenza di quei militari era stata voluta da Mosca verosimilmente solo per un’esigenza di prestigio, per mostrare che le costanti della politica estera russa sono sempre le stesse e che non si credesse di poter imporre una soluzione nei Balcani trascurando il Cremlino. Un g
esto politico, cui si è opportunamente risposto con un gesto politico, evitando così scontri militari.   

                                                                                                                                       

 

 

Gianfranco Varvesi