Memorie
Presentazione del libro
“Storia di una missione straordinaria. Dall’Ambasciata allo Stalag XVII”
di Carlo de Ferrariis Salzano
(Roma, Palazzo Montecitorio, 3 luglio 2017)
Interventi:
Ambasciatore Ferdinando Salleo
Ambasciatore Elisabetta Belloni, Segretario Generale della Farnesina
Ambasciatore Michelangelo Pisani Massamormile
Ricordo:
Ambasciatore Gianfranco Verderame
Intervento dell’ Ambasciatore Ferdinando Salleo
L’affetto filiale e la passione civile di Fabrizia ci hanno permesso di portarvi dopo tanti anni questo bel volume di cui lei è la curatrice, “Storia di una Missione Straordinaria - Dall’Ambasciata allo Stalag XVII”, edito da Castelvecchi. È il memoriale che suo padre, l’Ambasciatore Carlo de Ferrariis Salzano, consegnò al Ministero degli Esteri al ritorno in patria dopo tre anni di vicissitudini politiche e diplomatiche straordinarie, di pericoli fisici e di tormenti personali, morali e affettivi.
Ospiti della Camera dei Deputati, che tengo anzitutto a ringraziare per la squisita sensibilità, in particolare la Presidente On. Laura Boldrini, parleremo del libro in questa bella storica sala del Mappamondo, dove gli atti parlamentari ci richiamano alle Istituzioni. Ne parleremo con un panel di grande livello che saprà rappresentarvi ogni aspetto delle circostanze in cui viveva e operava de Ferrariis durante quello che egli stesso chiama “il libero cammino che ognuno di noi…intraprende secondo il proprio destino umano”, un cammino che per lui fu arduo e doloroso, seminato di difficili decisioni che affrontò sempre con nobile coraggio.
È davvero la storia di una Missione Straordinaria sul piano diplomatico. Per sei mesi due Legazioni d’Italia hanno operato nella stessa capitale, agenti in concorrenza e rappresentanti di due governi in guerra tra loro, a Budapest dove il governo di accreditamento si destreggiò come potè fino all’occupazione tedesca e alla propria sparizione come governo indipendente. Non meno straordinaria è, sul piano umano, la sequenza di prigionia, umiliazioni e tormenti inflitti dagli aguzzini ai nostri diplomatici addirittura in un lager tedesco in Austria, lo Stalag XVII divenuto celebre per un film omonimo (Stalag XVII, L’inferno dei Vivi) che ricorderete, anche per aver vinto un Oscar e due nominations. Poi, il trasferimento e l’internamento, la fuga e la traversata dell’Appennino in pieno inverno nella neve per raggiungere la zona liberata. Nell’epilogo felice, l’abbraccio con la famiglia a Taranto.
Prima di dare la parola al nostro panel, permettetemi di dirvi che io stesso ho subìto il fascino di questo libro – e sono certo ne converrete – per la disarmante sincerità con cui l’Autore fa parte dei suoi sentimenti al Ministero degli Esteri cui il documento era diretto come, oggi, ne parla a noi. Molta memorialistica, pur necessaria alla comprensione dei fatti al di là dei documenti, contiene pulsioni di vanità, facili “previsioni” ex post, comprensibile giustificazione delle azioni compiute, vendette postume nei confronti degli avversari, persino ricostruzioni apocrife di avvenimenti. Nulla di tutto ciò nel testo di de Ferrariis dove invece prevalgono la ricostruzione fattuale, la riaffermazione mai retorica dei valori che dettavano le sue decisioni, una dignitosa trasparente umiltà nel riconoscere il carattere della sua azione dettato dal dovere. Nello stesso senso si ritrovano il realistico riconoscimento del quadro contraddittorio e inimmaginabile in cui operava, la lealtà nei confronti degli interlocutori ungheresi per il comportamento non privo di rischi per loro stessi. Nella prigionia non manca di distinguere i sentimenti umani degli uni da quelli odiosi e persecutorî di altri, senz’astio ma con un sottostante giudizio morale. Nelle traversie della clandestinità ricorda con affettuosa riconoscenza suorine e parroci, vecchiette e persone semplici che gli fornivano assistenza, anche qui con non poco rischio, a differenza di alcuni alti prelati e personalità ufficiali che si defilavano.
Permettetemi, infine, senza voler farmi giudice di stilistica, di riconoscere al nostro Autore una qualità letteraria non molto comune nella memorialistica. De Ferrariis ha una scrittura tersa che non risente del…gergo diplomatico e della sovente aridità del riferire, ha un’autentica commozione nelle descrizioni, una nobile sincera enunciazione del patriottismo e del credo della libertà, del senso del diritto e della giustizia che ispiravano le sue decisioni. Man mano che de Ferrariis si avvicina avventurosamente al suo Paese e finalmente lo raggiunge, dapprima in zona ostile e infine in quella liberata, si intensifica commosso il sentimento in cui l’amore per l’Italia raggiunge una dimensione quasi fisica. Un bel libro davvero.
Ho il piacere di presentarvi per prima l’Ambasciatore Elisabetta Belloni, Segretario Generale del Ministero degli Esteri, incarico che molti anni fa ricoprì anche il nostro Autore. È proprio della tradizione di dedizione che la diplomazia italiana porta allo Stato e al popolo italiano che l’Ambasciatore Belloni potrà parlarvi, della capacità di sacrificio che la lealtà istituzionale dettò alla stragrande maggioranza – come nel volume del 1948 testimoniava Giuseppe Brusasca - dei nostri diplomatici di carriera in quei tempi travagliati e drammatici, in una parola del senso di continuità ideale del messaggio fondante del Risorgimento che tuttora la caratterizza.
La Professoressa Elena Dundovich, Docente di Storia delle Relazioni Internazionali e di Storia dell’Europa Orientale nell’Università di Pisa, ci ha dato nell’Introduzione un eloquente quadro storico di quel tempo travagliato, oggetto per decenni di studi e di memorialistica, sovente controversa, di ricerca delle fonti, ancora lungi dall’essere esaustiva. Presiedendo alla redazione di un solido corpo di note, la Professoressa Dundovich ha messo il lettore in grado di riconoscere le principali situazioni e le caratteristiche delle dramatis personae.
L’Ambasciatore Michelangelo Pisani Massamormile ci darà testimonianza della perdurante forza della cultura di ispirazione crociana liberale e della tradizione diplomatica napoletana – cui apparteneva anche Attilio Perrone Capano, lo sfortunato collega di de Ferrariis che condivise con il suo superiore maltrattamenti e speranze nelle fortunose avventure del cammino verso la libertà a cui sacrificò la giovane vita – come del vibrante sentimento della nazione che ha sempre animato i tanti colleghi che, dall’unità d’Italia sino ad oggi, ne provengono.
Come vedrete dal libro, pur strette in un drammatico dilemma e con l’alleato tedesco alle porte, le Autorità ungheresi - che sono lieto di accogliere qui oggi in un loro rappresentante - tennero un comportamento umano, amichevole e sovente coraggioso verso l’Italia, verso i suoi rappresentanti a Budapest e le migliaia di nostri militari rifugiati dall’Est ai quali de Ferrariis e i suoi prestarono ogni aiuto e assistenza in condizioni di rischio anche personale. Un profondo conoscitore dell’Ungheria e dell’Europa Orientale, Andrea Tarquini del quotidiano romano La Repubblica, potrà ricordarci quello speciale rapporto che lega i due popoli. Senza andar troppo indietro, potremmo ricordare il Memoriale che il grande umanista Diomede Carafa, il conte di Maddaloni, scrisse a beneficio della principessa Beatrice d’Aragona, figlia di Ferrante re di Napoli che andava sposa al grande re d’Ungheria Mattia Corvino (voleva cosigliarle come contenersi con gli ungheresi …) o i magiari che combatterono tra i Mille di Garibaldi in Sicilia e a Napoli.
A Fabrizia de Ferrariis Salzano Pratesi, ideatrice e forza propulsiva di questa bella pubblicazione, spettano la chiusura della presentazione e la sua conclusione. Fabrizia ha aggiunto in calce al Memoriale i ricordi di una bambina sballottata tra l’Ambasciata e i campi di concentramento, lontana dal padre e priva di notizie per un anno, ma sono certo che vorrà oggi farci eloquentemente parte dei suoi sentimenti per commentarci questo libro.
Intervento del Segretario Generale della Farnesina
Ambasciatore Elisabetta Belloni
Sono davvero molto lieta di poter intervenire alla presentazione di questo bellissimo libro. E vorrei congratularmi molto con Fabrizia de Ferrariis Salzano Pratesi per averlo curato con così tanta passione. Nel pubblicare il volume ha infatti reso un servizio straordinario non solo alla memoria di suo padre, ma anche a quella della diplomazia italiana e alla dignità del nostro Paese.
Il libro racconta infatti una vicenda personale e professionale davvero unica, sullo sfondo di uno dei passaggi storici più drammatici per l’Italia. Gli scritti dell’Ambasciatore Carlo de Ferrariis Salzano fissano cioè, tra il 1943 e il 1945, un momento in cui la biografia personale e le scelte individuali si intrecciano con la Storia legata alla caduta del fascismo, alla firma dell’armistizio, alla nascita della Repubblica di Salò e alla fine della seconda guerra mondiale.
Nel 1943 de Ferrariis era numero due della Legazione italiana a Budapest, diretta da Filippo Anfuso [amico e Capo di Gabinetto di Galeazzo Ciano, quando questi era stato Ministro degli Esteri]. Dopo l’armistizio dell’8 settembre e la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, all’interno della Legazione si consumò una drammatica frattura. Anfuso decise infatti di aderire al Governo di Salò, mentre de Ferrariis si mise alla guida dei funzionari rimasti fedeli al Re e al legittimo governo italiano. In quella contrapposizione di personalità e scelte, professionali e di vita, si rifletteva la guerra civile che avrebbe diviso l’Italia intera.
De Ferrariis riorganizzò in un altro edifico la Legazione legittima con il risultato che, complice la volontà del governo ungherese di mantenere rapporti sia con i fascisti che con gli anti-fascisti, per 6 mesi a Budapest vi furono due Rappresentanze diplomatiche italiane. Un’anomalia che durò fino al marzo del 1944, quando i tedeschi occuparono Budapest e arrestarono de Ferrariis e i suoi colleghi.
In quei sei mesi la Legazione Regia fu in grado di difendere con molta determinazione gli interessi dell’Italia, sia economici che culturali. Grazie alla collaborazione del governo ungherese riuscì in particolare ad assistere e proteggere centinaia di militari italiani bloccati in Ungheria, o che erano sfuggiti alla deportazione in Germania, facendo in modo che ottenessero l’asilo politico o che non finissero nei campi nazisti.
Con l’occupazione tedesca e l’arresto iniziò una fase nuova, altamente drammatica. Una fase che, nonostante lo sgomento inziale, nel libro prende il ritmo e la forma - anche narrativa - di una rincorsa verso la libertà. E che vedrà de Ferraris nelle prigioni di Budapest, nel campo di concentramento di Kaisersteinbruch, poi in quello di Lumezzane, vicino a Brescia e infine in un Istituto religioso di Cesano Boscone in Lombardia. Da qui de Ferrariis scapperà attraverso Bologna per Roma, dove giunse dopo non poche peripezie nel febbraio del 1945. Potendosi così mettere alla ricerca della moglie Isabella e delle figlie Beatrice e Fabrizia. Nel frattempo, però, nel passaggio invernale sugli Appennini aveva perso la vita il collega diplomatico di Budapest Attilio Perrone Capano, il cui nome è stato scolpito nel “Libro d’oro” realizzato da Arnaldo Pomodoro che alla Farnesina raccoglie le storie dei diplomatici caduti in servizio.
Vorrei soffermarmi, in particolare, sul significato e la portata della scelta di campo che egli fece, della decisione di rimanere fedele al Re e al governo del sud.
Una scelta molto coraggiosa, che metteva a rischio la sua vita e quella dei suoi familiari. Fu il frutto, anzitutto, di un giudizio politico che de Ferrariis aveva maturato sul fascismo sin dalla sua caduta, evento che commentò con queste parole: “La storia aveva pronunciato il verdetto inappellabile contro un regime, che era morto nelle coscienze prima ancora che nelle istituzioni”. In secondo luogo, la sua scelta fu espressione di un gesto di responsabilità, di un obbligo morale, della lealtà di un “servitore dello Stato” che aveva prestato giuramento al Re. E che rispetto a quel giuramento e alla sua coscienza personale voleva restare coerente.
Un sentimento che nel libro lo stesso de Ferrariis descrive così: “Nelle avverse circostanze la dignità dell’individuo, come quella della nazione, non si esaurisce nella ricerca del quieto vivere o nell’interpretazione di inerti norme burocratiche, ma si preserva nell’attiva difesa della propria integrità morale e nella ferma accettazione della propria responsabilità”. Fu questa dirittura morale che ispirò la sua azione a Budapest. Così come quella, in altre sedi, di altri diplomatici. Penso - ad esempio - all’Ambasciatore italiano in Giappone, Ettore Baistrocchi, che – avendo scelto di restare fedele al Re - fu internato in un campo di concentramento con la famiglia e buona parte dei funzionari della Rappresentanza per circa due anni (Baistrocchi ha raccontato la sua storia nel volume: “Diplomatici allo sbaraglio”).
Oltre che coraggiosa, la scelta di de Ferrariis fu molto difficile, anche per il condizionamento ambientale di Budapest. Avrebbe potuto seguire, più semplicemente, l’amico e il superiore gerarchico Anfuso, che si affrettò a telegrafare a Mussolini “con Voi sino alla morte”. Avrebbe potuto mantenere una posizione distaccata, come fu il caso per altri diplomatici, anche perché lasciati senza informazioni e senza istruzioni dopo l’8 settembre 1943. Avrebbe potuto imitare quei diplomatici, pochi per la verità come ci dice lo storico Enrico Serra, che avendo creduto genuinamente nei valori del fascismo aderirono esplicitamente alla Repubblica di Salò. Fu il caso – ad esempio - di Luigi Bolla, che molti anni dopo avrebbe spiegato le sue ragioni in un libro di memorie dal titolo “Perché Salò”. De Ferrariis rifiutò ogni ambiguità e riuscì a collocarsi dalla parte giusta della Storia, compiendo una scelta netta e mettendosi in gioco in prima persona. Facendosi forza attiva della Storia.
Non abbiamo un quadro storico completo di come i diplomatici reagirono all’8 settembre del 1943. Nel volume del 1949 curato dal Sottosegretario Giuseppe Brusacca, dal titolo “Il Ministero degli esteri al servizio del popolo italiano”, si sottolinea comunque come la maggioranza dei funzionari diede “prova di lealtà e di coraggio”. Sappiamo anche che le Ambasciate non furono avvertite di quanto stava per accadere e che i funzionari si trovarono a dover scegliere in poco tempo e in circostanze confuse tra Mussolini e il Re. A interrogarsi cioè se la patria fosse a Brindisi o a Salò.
Le vicende individuali - ognuna con la propria dose di buona fede personale e di condizionamento ambientale che sembrano spiegare (e talvolta giustificare) scelte e comportamenti - non devono tuttavia farci perdere di vista la posta in gioco collettiva di quel passaggio storico così cruciale per il nostro Paese. Nel settembre del 1943, schierarsi con Salò o con il Re non fu infatti solo un modo diverso di servire lo stesso concetto di Patria, come alcuni hanno provato a sostenere. È vero: molto spesso fu probabilmente un “nulla” a spingere qualcuno da una parte o dall’altra. Ma ciò non toglie – come la Storia si è incaricata di chiarire - che da una parte vi fosse il “giusto” (l’anelito alla libertà e alla democrazia) e dall’altro lo “sbagliato” (la connivenza con i disegni paranoici di Hitler). Prima e meglio di molti storici, è stato Italo Calvino a raccontarci in quel romanzo straordinario che è “Il sentiero dei nidi di ragno”, il confine sottile che nel 1943-45 poteva separare in modo tragico le scelte e i destini di una persona e di una nazione. Lo stare di qua o di là. La distinzione tra il “giusto” e lo “sbagliato”.
Furono pertanto proprio i gesti alti, netti e coraggiosi come quello di de Ferrariis, e di molti altri italiani in situazioni simili, a salvare l’onore e la dignità della nostra patria rispetto al fascismo. Lo ricordò benissimo l’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che su questi temi si soffermò ripetutamente nel corso del suo mandato, quando rivolgendosi idealmente ai caduti della Divisione Acqui di Cefalonia, osservò: “Decideste consapevolmente il vostro destino. Dimostraste che la patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l’esistenza. Su questa fondamenta risorse l’Italia”. Con il suo gesto anche de Ferraris contribuì dunque a mantenere viva la patria e far rinascere l’Italia.
L’Italia repubblicana risorse dopo il 1945 anche imboccando la strada dell’amnistia e della pacificazione nazionale dopo la guerra civile. Si scelse in sostanza di non fare veramente i conti fino in fondo con chi, nel 1943, aveva compiuto una scelta diversa da quella di de Ferrariis. Fu così in parte anche per il Ministero degli Esteri. In un primo momento radiati dal Ministero, i reduci di Salò furono poi in vari casi reintegrati nei suoi ruoli, complice anche il Consiglio di Stato. Una volta tornati – scrive Sergio Romano - furono però trattati come paria e assegnati spesso ad incarichi secondari. In questo dimostrando che a quei tempi la carriera diplomatica si percepiva ancora come una corporazione patriottica, gelosa di applicare una propria giustizia interna nei confronti dei propri adepti.
Mi piace ricordare che dopo la guerra de Ferrariis assunse invece incarichi di primaria importanza, sino a raggiungere il vertice dell’Amministrazione.
Tra i tanti meriti del libro di de Ferrariis, vi è naturalmente quello di rinverdire agli occhi di tutti la memoria della sua “straordinaria missione”. Proprio nel presentare “Il sentiero dei nidi di ragno”, lo stesso Calvino si riferiva al 1943-45 come a un periodo in cui i mesi “hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni”. È una considerazione che si attaglia particolarmente bene all’Ambasciatore de Ferrariis e alla sua esperienza. La sua vita e le sue scelte professionali sono e continueranno a essere infatti fonte di ispirazione per tutti noi che ancora oggi siamo in carriera, a cominciare dai più giovani che hanno bisogno di modelli positivi cui fare riferimento. Da questo punto di vista, e parlo da attuale Capo dell’Amministrazione degli Esteri, credo che l’esperienza di de Ferrariis ci lasci in particolare tre parole chiave che devono caratterizzare il modo di lavorare della diplomazia italiana: coraggio, responsabilità e senso dello Stato.
Non vi è dubbio che le circostanze in cui si trovò de Ferrariis nel settembre del 1943 furono drammaticamente straordinarie. E uniche. Ma il coraggio è una dote ancora oggi indispensabile per fare il diplomatico. Altrettanto cruciale è naturalmente la responsabilità. La capacità di fare il proprio dovere, di prendere decisioni, di gestire strutture complesse, di elaborare idee, proposte e strategie da sottoporre al vertice politico. Il senso dello Stato è essenziale per la cultura del lavoro della nostra carriera. Ho sempre insistito molto su questo punto e continuerò a farlo. Dobbiamo essere sempre capaci di lavorare per l’interesse nazionale, al servizio dei cittadini, in modo trasparente, senza piegarsi a visioni ideologiche e anche dicendo dei no, anche compiendo scelte drastiche se e quando necessario.
Ecco perché per coraggio, responsabilità e senso dello Stato, de Ferrariis resterà dunque per noi un grande esempio da seguire e una personalità cui continuare a ispirare i nostri comportamenti. E per tradurre questa convinzione in iniziative concrete dedicheremo al suo nome e quindi alla sua storia, il prossimo corso di formazione dei giovani diplomatici. Faremo in modo che tra le loro lezioni vi sia posto anche per una presentazione dei contenuti di questo libro affinché serva da esempio e ispirazione.
Intervento dell’Ambasciatore Michelangelo Pisani Massamormile
Tra la pubblicazione del Memoriale che oggi salutiamo e la sua redazione sono trascorsi 72 anni che apparirebbero, nella visione della Eternità, un granellino di sabbia, ma col metro della vita umana, non sarebbero lo spazio di un mattino o una nottata che non vuole passare. Da dire subito che quando fu scritto il Memoriale era una Relazione con la quale l’Autore riferiva al Ministero sulla Missione che gli era stata affidata. Era quindi un documento di Ufficio non destinato alla pubblicazione. In più, la Relazione non è stata mai perduta e poi ritrovata e neppure dimenticata. Trasferita a suo tempo all’Archivio Storico è stata consultata da ricercatori, storici e familiari tra i quali Eva Framarino della quale si é già parlato.
Tutto questo andava premesso per condividere il grido di Fabrizia de Ferraris nell’apprendere una data, quella del giorno di questo nostro incontro. Era un urlo certo di soddisfazione ma anche liberatorio dall’ansia, dalla paura che i 72 anni crescessero ancora. Permettetemi di credere che oggi ci avvaliamo del libro che finalmente abbiamo tra le mani per ringraziare l’Autore ricordando tre suoi anniversari: i 90 anni dalla prima delle due Laure da lui conseguite, quella a Napoli in Giurisprudenza, gli 85 dalla entrata in Carriera, i 59 anni dalla nomina a Segretario Generale del Ministero.
In gennaio del 1942 Filippo Anfuso fu nominato a capo della Rappresentanza d’Italia in Ungheria. Due mesi dopo Carlo de Ferraris fu nominato numero Due dell’Ambasciata. Il numero Due non é solo il maggiore collaboratore del Capo Missione, ne è anche il Sostituto. Ai miei tempi (forse ancora) il Ministero accedeva, qualora possibile, alle preferenze del Capo Missione. ‘E da supporre che la prassi sia stata osservata anche per la nomina di de Ferraris, giovane diplomatico di spicco che Anfuso conosceva ed apprezzava. Si ritiene, ma non ne ho avuto conferma dagli Annuari, che Anfuso si sarebbe avvalso come amanuense di de Ferraris nell’incontro al Brennero di Mussolini con Hitler. Nei giorni scorsi nel commemorare Kohl è stato ricordato che egli accompagnando Reagan, in visita in Germania ad un cimitero di caduti in guerra, osservò che se fosse nato con un anno di anticipo in quel luogo ci sarebbe stato anche lui. Contro le congetture che questi precedenti possono sollevare cito Roberto Ducci che ammoniva i Collaboratori: liberatevi dai pregiudizi, ignorate le vostre preferenze, ricordate di essere funzionari non del Governo, ma dello Stato. De Ferraris lo sapeva bene e lo ha confermato nel settembre del 43 con la scelta giusta, opposta a quella di Anfuso.
Quando Carlo de Ferraris arrivò in Ungheria aveva il grado di Primo Segretario di Legazione di seconda classe che manteneva quando a Rona scrisse la Relazione sulla Missione Straordinaria. Il prestigio acquisito gli attribuiva una autorità morale superiore al grado ed egli espresse la convinzione che la sua sopravvivenza ai quei tragici fatti fosse collegata al dovere di raccontarli.
Attilio Perrone Capuano giunse a Budapest il 15 giugno del 1943, per la sostituzione del cugino Carlo imparentato con una delle maggiori famiglie ungheresi, sostituzione che avrebbe dovuto avvenire senza essere percepita, oltre il Ministero degli Esteri, perché nei bollettini continuava, con Attilio, a figurare negli Annuari lo stesso cognome (a chiarire il significato e l’estensione di questa accortezza non sono bastati i 72 anni di cui sopra. Speriamo ora).
Attilio accettò senza fiatare il trasferimento da Ginevra nonostante che lasciasse senza appoggio moglie e figlioletto che non avrebbe più rivisti. Attilio, nei sei mesi di contrapposizione diplomatica con l’Ambasciata di Salò, partecipò alla assistenza ai soldati italiani dispesi, ai connazionali in difficoltà, agli ebrei perseguitati. Nei 10 mesi di deportazione in Germania, di detenzione in Italia del Nord, Attilio dimostrò coraggio, orgoglio di appartenenza fino all’impulso irrefrenabile a raggiungere Roma liberata, affrontando impreparato la scalata del Monte Cimone. Di tutto questo De Ferraris era ben a conoscenza e lo riflette nel Memoriale per dare alla memoria di Attilio quello che in vita voleva “di essere ancora e per sempre in missione.”
Nove mesi prima del sacrificio di Attilio vi fu quello di altro giovane, ugualmente diplomatico, ugualmente napoletano: Filippo de Grenet, coinvolto come tutti nella mobilitazione militare, combattente in Africa Orientale, ferito, prigioniero, incluso in uno scambio di prigionieri, convalescente in Roma occupata, collaboratore del Colonnello, Comandante della Resistenza, Montezemolo arrestato, sottoposto a tortura, trucidato alle Fosse Ardeatine. Gli episodi di Filippo e di Attilio, nello stesso contesto dell’Italia tagliata in due, sono sempre stati accostati nel ricordo e nel rispetto dei napoletani. Quando si trattò di scegliere nel 2014 una data per la presentazione del libro di Eva Framarino, precursore di quello di oggi, la fissammo a cavallo del 3 gennaio perdita di Attilio e del 24 marzo perdita di Filippo. L’accostamento portò numeri de Grenet a partecipare. Vi era un Nipote al quale era stato dato il nome dello zio. Oderico, il più anziano della Famiglia, ci consegnò una copia dello statino militare di Filippo affinché il Circolo di Studi Diplomatico lo conservasse e lo ricordasse. Ci sembrò che il gesto di Oderico ripetesse per Filippo quello che de Ferraris voleva per Attilio. Entrambi avevano il diritto di essere ricordati per un valore che appartiene a tutti gli italiani e che la Carriera ha l’onore e la responsabilità di rappresentare all’Estero. Questo valore richiede parole solenni ed appropriate. Vorrei sottoporvi quelle di Benedetto Croce nella dedica del suo Volume “Quando l’Italia era tagliata in due.” Mi sembra che la dedica di Croce esprima il messaggio che le giovani generazioni non sono di diplomatici dovrebbero recepire e del perché il Memoriale ci porta a ricordare anche Filippo de Grenet. Permettetemi di concludere con la lettura della dedica:
“Alla mia Napoli che non ha chiesto né vagheggiato autonomie e separatismi religiosamente fedele a quella idea di unità nazionale che i suoi Uomini del 1799 propugnarono tra i primi dedico il Diario di un periodo nel quale separati di fatto di continuo all’Italia pensammo anelando di tornare tutt’uno con lei.”
Ricordo dell’Ambasciatore Gianfranco Verderame
Ho letto con molto interesse e partecipazione gli interventi dell’Ambasciatore Salleo e del Segretario Generale in occasione della presentazione del libro “Storia di una missione straordinaria. Dall’Ambasciata allo Stalag XVII” di Carlo de Ferrariis Salzano curato dalla figlia Signora Fabrizia. Ho avuto la fortuna di svolgere il mio primo incarico di Capo Missione in Ungheria, e questo contribuisce a rendermi emotivamente molto sensibile a tutto quello che in qualche modo ha a che fare con la storia di quel Paese, specie quando, come nel caso della vicenda di de Ferrariis, essa si incrocia con un episodio particolarmente significativo della tradizione della diplomazia italiana di servizio allo Stato e di lealtà alle Istituzioni.
Nel corso della presentazione del libro è stato ricordato il legame di amicizia molto stretto che intercorreva fra Carlo de Ferrariis ed un altro diplomatico che ha illustrato la nostra carriera negli stessi anni fino al sacrificio supremo tra i martiri delle Fosse Ardeatine, Filippo de Grenet.
Entrambi furono accomunati nel ricordo in occasione della presentazione a Napoli di un altro libro, “Una gita in blu” di Eva Frammarino, che racconta la vicenda di un terzo giovane diplomatico napoletano: Attilio Perrone Capano che, come de Ferrariis, visse i difficili momenti della contemporanea presenza a Budapest di due Legazioni italiane, l’una rimasta fedele alla Monarchia e l’altra espressione della Repubblica di Salò, ma che a differenza del primo non sopravvisse all’avventuroso viaggio intrapreso nel gennaio del 1945 verso l’Italia liberata dopo l’evasione dal campo di prigionia in cui era stato internato dai tedeschi.
Quella sera a Napoli, ospite presso l’Istituto Italiano di Studi Filosofici di un altro collega napoletano orgoglioso custode dei principi della Carriera e appassionato divulgatore dei suoi meriti, Michelangelo Pisani Massamormile, ricevetti dal nipote di Filippo de Grenet, con la richiesta di conservarlo fra le carte del Circolo di Studi Diplomatici, lo stato di servizio dello zio trucidato alle Fosse Ardeatine e per questo inserito nel Libro d’Oro del Ministero degli Esteri a ricordo dei suoi caduti, custodito in una colonna di bronzo opera del Maestro Arnaldo Pomodoro.
Mi fa particolarmente piacere, a me campano, ricordare in questa occasione tre diplomatici napoletani protagonisti ciascuno per la sua parte di un periodo drammatico della storia italiana.