Memorie



Presentazione del libro di Bernardino Osio "Tre anni a Buenos Aires 1975-78"

Napoli, 4 maggio 2018

 

INTERVENTO DELL’AMBASCIATORE MICHELANGELO PISANI MASSAMORMILE

Signore, Signori, Cari Amici, permettetemi di iniziare con un accostamento: tra 5 giorni ricorrerà il quarantesimo anniversario di un delitto atroce, il più sconvolgente in Italia dalla fine  della Guerra ad oggi. Ad alcuni potrà apparire che l’assassinio di Aldo Moro non rientri nella presentazione odierna. Vorrei dimostrare il contrario.  Il pregevole libro dell’Ambasciatore Osio racconta le atroci violazioni dei Diritti e delle Libertà fondamentali avvenute in Argentina dal 1975 al 1978 . Quel nefasto triennio persiste nella mia angoscia, si collega, sebbene non coincida, con quello di Osio: alle 20,20 del 6 Agosto 1975, Bernardo Leighton e la consorte Anita Fresno, rifugiati cileni a Roma, mentre rientravano nella loro abitazione, subirono un agguato. Diversi colpi d’arma da fuoco li raggiunsero. Leighton era stato uno dei Fondatori della DC cilena ,Vice Presidente e Ministro degli Interni nel Governo di Eduardo Frei Montalva  Sopravvivranno, ma invalidi, semi paralizzati, sofferenti. Il primo processo del delitto terminerà con un’ assoluzione per insufficienza di prove ( passerà in giudicato) da parte degli imputati: il Gruppo Avanguardia Nazionale di Stefano  Delle Chiaie. Non fu possibile interrogare un Agente della Dina, la Polizia Segreta di Pinochet, Michael Tawnley di cittadinanza nordamericana. Questi sarà un Collaboratore di Giustizia USA per alto delitto, l’omicidio in Washinton  di Orlando Latelier, già Ministro degli Esteri nel Governo Allende, e di una sua collaboratrice cittadina americana. Dopo il crollo del muro di Berlino, le misure di protezione ai Collaboratori di Giustizia si allentarono e fu possibile a Giovanni Salvi, Procuratore della Repubblica, di interrogare in Amarica Tawnley. Questi affermò che il delitto contro Leighton andava collegato a quello, tre anni dopo, contro Moro, lo anticipava e lo spiegava.
Le violazioni dei Diritti e delle Libertà Fondamentali dell’Individuo continuano ad avvenire in tante parti del Mondo, anche in Paesi vicini che visitiamo e amiamo. ’E attuale e giusto evocare quelle del passato, denunciare i silenzi, le implicite complicità, chiedere, a chi omise di condannare e soccorrere,  di riconoscere la parte di colpa che su di lui ricade. ‘E doveroso ottenere pubblicamente scusa. Per quelle dovute nell’ambito delle relazioni italo argentine è stata richiamata la situazione in Argentina. Deve essere  ricordata anche quella in Italia. Non certo per attenuare responsabilità imperdonabili, ma per comprenderle. Mi  sembra del tutto riduttivo, anche in minima parte, il ruolo del cavallo che disarcionò l’Ambasciatore Carrara.
Il triennio, raccontato da Osio, è in Italia quello degli Anni di Piombo, delle staggi di Piazza della Loggia , del Treno Italicus, della Teorizzazione della Violenza, della Strategia della Tensione, delle Brigate Rosse, dell’Assassinio del Procuratore Francesco Coco. Tutto questo, da completare con  tutto quanto omesso, non intende invocare circostanze attenuanti. Al contrario vuole affermare che il senso di colpa deve continuare a roderci, anche se avessimo ottenuto i pentimenti che invochiamo, se continuassimo a guardare altrove dai Gas in Siria o degli annegamenti nel canale di Sicilia.
Un’ultima parola per quella che potrebbe sembrare una schizofrenia istituzionale. All’inerzia italiana in Argentina si contrappose un impegno in Cile, ben oltre il formalismo della Legge e la coerenza ideologica. Giustamente sono stati aiutati i perseguitati  passando loro i passaporti di cui  generosi visitatori falsamente pretendevano di aver smarrito, in dichiarazioni consapevolmente accettate dai Consolati. Giustamente si è interpretata la “Cooperazione allo Sviluppo” estesa a quella necessaria per sconfiggere nelle elezioni politiche Pinochet. Ingiustamente si è gridato allo scandalo quando il 1 aprile del 1987 Papa Wojtyla è apparso con Pinochet in un balcone del Palazzo della Moneda, ara del sacrificio di Allende. La fotografia di quell’episodio è stata l’inizio di un percorso difficile, pericoloso, coraggioso, dimostratosi virtuoso perché ha portato ad una transizione non cruenta, democratica, pacificatrice.  Andreotti, il 7 ottobre 1988 ne segui la lezione ripristinando le piene relazioni con il Cile, interrotte dal 1973. Fu però necessario un “Colpo di Mano” approfittando della differenza del fuso orario che non aveva ancora permesso di comprendere che Pinochet sarebbe  rimasto per 18 mesi a Capo dello Stato e poi per 8 anni delle Forze Armate, ma senza eludere, per la Storia e nella Vita, la decadenza, l’umiliazione, la pena.

Credo che anche la foto dell’Ambasciatore d’Italia, sempre alla Moneda, presentando le credenziali a Pinochet ,non sia stata gradita da coloro che avevano stigmatizzato quella del Dittatore col Pontefice. Concludo sottoponendo alla Misericordia di costoro i nomi dei tre detenuti politici, nelle carceri di Conception, dei quali l’Italia ottenne la liberazione avendo il Ministero degli Esteri dato istruzione all’Ambasciatore di chiederla in occasione della presentazione delle credenziali: Arinda Oyeda, Juan Bustos, Juan Sandovel. Grazie.                        

 

 

 

Intervento dell’Ambasciatore Gianfranco Verderame

L’avvincente libro di Bernardino Osio si presta a molteplici chiavi di lettura. Quella della ricostruzione storica di un periodo molto doloroso nella vita dell’Argentina. Quella della descrizione di vividi squarci di vita diplomatica. Quella di una sorta di esperienza di formazione per un “diplomatico di grado intermedio”, come egli stesso si definisce, in una avventura umana e professionale che deve averlo segnato più profondamente di quanto lui stesso sia disposto ad ammettere, e che ha finalmente sentito il bisogno di ripercorrere e di presentare al pubblico dei lettori.
Non ho le competenze per affrontare il tema dal punto di vista storico, e sono certo che altri lo faranno oggi molto meglio di quanto potrei farlo - o non farlo - io. La mia ottica sarà piuttosto quella del diplomatico che avrebbe potuto trovarsi nelle stesse condizioni nelle quali si è trovato l’autore e che avrebbe potuto vivere le stesse tragedie di cui egli è stato testimone diretto.
Credo innanzitutto che Osio meriti un grande ringraziamento. Non solo per quello che ha fatto negli anni di Buenos Aires per gli sventurati protagonisti delle tristissime vicende che egli descrive con grande efficacia e con commossa partecipazione, ma soprattutto per la sincerità con la quale affronta la delicatissima questione dell’atteggiamento italiano di fronte al golpe dei generali argentini e delle atrocità di cui essi si sono resi responsabili.
Vorrei rassicurare l’amico Bernardino. Io non sono di quelli che egli teme potrebbero, come scrive nell’introduzione, accusarlo di aver svelato arcani che era meglio se fossero rimasti nascosti e di aver “squarciato il velo” sulle ambiguità di molta parte della classe politica italiana nei confronti della dittatura argentina. Condivido invece, e di tutto cuore, la massima che egli cita al termine della sua introduzione, “amicus Plato, sed magis amica veritas”, e come lui credo che ad essa tutti dovrebbero ispirare la propria condotta nella vita di tutti i giorni e nelle esperienze professionali.
Del resto, in questa professione di fede nel valore della sincerità Osio non è certamente solo. Al “calembours” attribuito al Conte di Cavour secondo il quale egli aveva un metodo infallibile per ingannare i diplomatici, e cioè quello di dire loro la verità perchè era sicuro che così essi - abituati alla dissimulazione - non gli avrebbero creduto, si contrappongono gli innumerevoli esempi di diplomatici che hanno fatto del coraggio della verità la cifra distintiva del loro impegno professionale. Un esempio fra tutti, quello di Pietro Quaroni, che in una bella intervista del 1954 a “Le Monde Diplomatique” ricordava che una delle caratteristiche che un buon diplomatico deve possedere è il coraggio delle proprie opinioni, e quello di manifestarle senza farsi condizionare da circostanze esterne o dal livello del proprio interlocutore. Nel suo libro Osio riporta molti estratti di sue comunicazioni al Ministero in cui egli esprime con grande chiarezza il suo punto di vista e la sua interpretazione  dei fatti che si svolgevano sotto i suoi occhi.  
E’ un fatto che la reazione ufficiale italiana di fronte al golpe dei generali argentini fu per lungo tempo ben diversa e molto meno profilata di quella che seguì invece la cruenta deposizione di Allende in Cile e la sanguinosa dittatura di Pinochet. Osio ricorda in particolare che in quel periodo dal Ministero giungevano all’Ambasciata segnali inequivocabili che Roma non voleva che in Argentina si ripetesse l’esperienza del massiccio afflusso di rifugiati politici nell’Ambasciata che si era prodotto a Santiago, facendo valere l’interpretazione secondo la quale l’asilo politico nelle Ambasciate non è un istituto riconosciuto del diritto internazionale generale, bensì una consuetudine vigente esclusivamente nei rapporti fra i paesi latino americani.
Ci si può interrogare a lungo sul perchè di questo differente atteggiamento. Osio ricorda la trama di ambigue relazioni che in quel periodo si andavano svolgendo tra l’Italia e l’Argentina e la loro capacità di influire sugli orientamenti di una buona parte della classe politica italiana, emersa solo quando esplose il bubbone della P2. Altri ricorderanno che anche la reazione della comunità internazionale nel suo complesso ai fatti argentini fu generalmente debole ed attendista, anche perchè condizionata dalla tattica usata dai generali argentini i quali, memori dell’esecrezione internazionale che avevano provocato le atrocità cilene, adottarono un atteggiamento ben diverso, dando all’esterno un’immagine di moderazione per nascondere le sparizioni di massa che venivano perpetrate lontano dai riflettori e con modalità che non intaccavano la normalità della vita quotidiana. Altri infine richiameranno il clima di quegli anni nella sinistra europea, impegnata nell’esperimento dell’”eurocomunismo” e poco interessata ad aprire un ulteriore fronte di polemica politica con l’Unione Sovietica che aveva un bisogno vitale delle forniture di grano che le assicurava la Giunta militare argentina. A questo dibattito il libro di Osio apporta un contributo di grande interesse.
Ma torniamo al mio personale punto di vista. Nell’esperienza vissuta da Osio, nei diversi atteggiamenti degli Ambasciatori che si sono succeduti alla guida della Rappresentanza a Buenos Aires, ciascuno con la propria storia personale, i propri limiti e le proprie qualità, nell’ambiguità del Governo italiano e della struttura di vertice della Farnesina dell’epoca nei confronti della Giunta golpista, nel groviglio degli interessi che ruotavano attorno alla vicende argentine, si rispecchia appieno il contrasto che spesso un diplomatico vive fra il realismo politico e l’esigenza di affermare i valori che sono propri del suo mondo e della sua cultura. 
Leggendo il libro, mi è tornata alla memoria l’impietosa analisi che il grande sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman ha fatto nel suo “Modernità ed olocausto” della macchina burocratica moderna, che nella divisione dei compiti e nella polverizzazione delle responsabilità trova il fondamento della propria “indifferenza morale” rispetto alle conseguenze finali che le azioni individuali, per quanto piccole ed insignificanti nel contesto complessivo, finiscono per produrre. Bauman si interrogava su come fosse stato possibile che uomini “normali”, quali certamente erano nella loro maggioranza i burocrati ed i militari tedeschi dell’epoca, abbiano potuto contribuire, con compiti certo diversi, ma tutti funzionali al risultato finale, alla tragedia dell’Olocausto, e conclude la sua analisi con la sconcertante affermazione che non c’è nulla nelle regole di funzionamento degli apparati burocratici moderni che induca a “denunciare come sbagliati metodi di ingegneria sociale analoghi a quelli usati nell’Olocausto”. Fatte le debite differenze, le atrocità commesse dagli uomini della Giunta argentina, e da tutti coloro che in un modo o nell’altro vi contribuirono, si inseriscono perfettamente nell’interpretazione che Bauman dà dei meccanismi dell’Olocausto. E vi si inserisce forse anche la tiepidezza di certe reazioni nostrane. 
Ma i margini di espressione e di scelta individuali comunque esistono, e le vicende di impegno personale narrate da Osio ne sono una testimonianza eloquente, così come l’azione svolta, quando l’Italia ufficiale esprimeva la vergogna delle legge razziali, da tanti diplomatici e militari nei territori controllati dagli italiani per sottrarre un gran numero di ebrei al destino di sofferenze e di morte che li attendeva se fossero caduti nelle mani dei tedeschi. In molti casi quei diplomatici e quei militari agirono, se non contro, nonostante le istruzioni, e questo conferma che il controllo e i vincoli degli apparati burocratici possono sempre - o quasi sempre - offrire uno spazio nel quale può insinuarsi la coscienza dei singoli, 
Allo stesso modo, anche negli atteggiamenti più ambigui e meno trasparenti - e nel libro Osio ne ricorda parecchi, a cominciare da quelli di uno dei suoi Ambasciatori - ci possono essere degli sprazzi di chiarezza e, spesso di coraggio. Significativa al riguardo la lettera, riportata nel libro, che l’allora Direttore Generale degli Affari Politici della Farnesina inviò all’Ambasciatore italiano a Buenos Aires, nella quale si legge: “La nostra sensazione è che le Autorità argentine pensino ancora che il problema dei diritti umani investa un settore delle relazioni tra i due paesi senza permeabilità sugli altri. E’ opportuno che tale valutazione sia scoraggiata e che ad ogni occasione facciamo comprendere a codesto Governo che la gravità della situazione assume un aspetto globale che sta putroppo investendo la sfera completa dei rapporti e degli interessi fra i due Paesi”.
Leggendo questa lettera, e le altre testimonianze che Osio riporta circa gli atteggiamenti e le valutazioni di alcuni suoi colleghi in servizio a Roma in quel periodo, mi viene fatto di pensare a quanto l’azione del Ministero degli Esteri avrebbe potuto essere più lineare ed incisiva se non fosse stata sottoposta a condizionamenti di altra natura. Dico questo anche se non mi sfugge che gli elementi dei quali occorre tenere conto nella condotta delle relazioni internazionali spesso spingono in direzione diverse gli uni dagli altri. Non sempre è facile soddisfarli tutti allo stesso tempo. In questi casi, non si può non partire dall’analisi delle situazioni concrete, dai margini di intervento che esse consentono, dai punti in cui esse offrono maggiore resistenza o presentano più accentuate debolezze. Anche in questo si conferma l’importanza del ruolo della diplomazia: nella sua capacità di valutare tutte le componenti di un problema e di indicare gli strumenti volta per volta più adeguati per affrontarlo in maniera equilibrata e costruttiva.     
Un’ultima osservazione. Nel capitolo finale del libro l’autore si sofferma su tutto quello che, a livello centrale, si sarebbe potuto fare e non si è fatto per mettere un argine alla follia omicida che si era impadronita dell’Argentina in quegli anni, e conclude chiedendosi se il Governo italiano, a quarant’anni dagli eventi, non debba studiare la possibilità di un gesto di riparazione per le sue omissioni.
Ebbene, e lo ricordo con un certo orgoglio perchè l’operazione iniziò quando io svolgevo al Ministero degli Esteri le funzioni di Direttore Generale per i Paesi delle Americhe, nel 2011 è stato concluso un accordo tra i Ministeri degli Esteri dei due paesi per la messa a disposizione della documentazione d’archivio custodita presso la rete diplomatico/consolare italiana in Argentina concernente le vittime della dittatura militare. In base a questo accordo, un totale di 662 fascicoli personali, per complessivi 5.000 documenti, relativi a cittadini italiani ed italo argentini scomparsi durante la dittatura militare sono stati consegnati alle autorità argentine e sono conservati oggi nell’Archivio Nazionale della Memoria istituito nel 2003 nell’ambito della Segreteria per i Diritti Umani del Ministero della Giustizia argentino. Un gesto simbolico, certo, ma in politica estera anche i gesti simbolici hanno il loro significato, e spesso i fatti parlano più delle parole.      

 

 


Intervento dell’Ambasciatore Gabriele Checchia
Presidente del Club Atlantico di Napoli

     E’ per me un onore  poter portare a questa presentazione il saluto del Club Atlantico napoletano che si è voluto fare promotore dell’ iniziativa - insieme con la Compagnia della Croce cui va il mio più sincero ringraziamento - in quello spirito, che da sempre lo caratterizza, di apertura alle voci più qualificate della società civile , della cultura così come   del mondo diplomatico e letterario.

     Come   opportunamente rilevato dall’amico Ambasciatore Pisani Massamormile nel suo bell’intervento di apertura,     il patrocinio del Club Atlantico partenopeo all’ evento che ci vede qui oggi intende anche rappresentare  conferma di uno sviluppo del quale la vostra così numerosa presenza , nel segno di valori comuni, è pregnante testimonianza:

         quello cioè della crescente attenzione rivolta dalle Associazioni  espressione della società civile  riconducibili a vario titolo all’ Alleanza  Atlantica  - nella nuova   e per molti versi confusa fase apertasi con la fine del confronto tra i blocchi -  a territori  ( come quello della memorialistica di qualità e del contributo della Diplomazia alla  tutela dei diritti fondamentali ) che vanno  ben al di là delle questioni securitarie e di valenza politico-militare che hanno a lungo rappresentato il prioritario, se non esclusivo,   polo di interesse anche di tali  organismi.

      In altri termini, se oggi in questa bella sala soffia metaforicamente   un vento “atlantico” si tratta di  vento  che più che mai trova la propria sorgente  proprio in quel rispetto dei valori trascendenti di libertà e di tutela della dignità della persona  che costituiscono il  filo-conduttore del volume  dell’Ambasciatore Osio .

 

        Se mi venisse poi chiesto di indicare - al di là degli stimoli intellettuali che la sua lettura suscita per una molteplicità di motivi -  quali sono a mio avviso i tratti che ,più di altri,  consentono di cogliere la sostanza del messaggio del quale   egli   ha inteso farci partecipi con la sua opera direi che sono   perlomeno   tre:

  •      ho  in primo luogo colto , in “ Tre anni a Buenos- Aires”, un ammirevole omaggio da un lato,  all’antico principio di “humanitas”  quale  sofferta e non passiva  partecipazione al dolore altrui ; dall’altro,  al “diritto naturale” inteso come quel minimo comun denominatore tra gli  esseri umani che  fissa  limiti  invalicabili, pur se non scritti,  in termini di accettabilità dei nostri comportamenti nei confronti degli Altri . Limiti   da non oltrepassare MAI, a prescindere da quanto il “diritto positivo” di questo o quel Paese o ordinamento possa spingersi a   considerare   “lecito” in determinati   frangenti ;

 

  • in secondo luogo, la coinvolgente rievocazione di quanto da lui e da altri Colleghi messo in atto, a Buenos Aires e/o Roma,  in quel drammatico triennio per tentare di sottrarre al loro destino il maggior  numero possibile di “desaparecidos” di nazionalità italiana o italo-argentina - così come  per alleviare le angosce dei rispettivi familiari - mi pare  contributo importante ed encomiabile al riscatto della dignità e dell’immagine della nostra Diplomazia. Ancor più in un periodo (come quello appunto della metà degli anni’70 ) nel quale altre componenti della Carriera e delle nostre Istituzioni davano prova  per una pluralità di motivi - tutti lucidamente illustrati dall’Ambasciatore Osio, e riconducibili almeno in parte alle ciniche logiche del duro confronto tra blocchi allora in atto - di ben maggiore prudenza se non, in taluni casi, di comportamenti gravemente  e  tristemente   omissivi;

 

               Infine, mi piace leggere  - nelle tante e belle pagine dell’opera dedicate alle drammatiche vicende dei nostri “desaparecidos” e al  così dignitoso dolore dei loro familiari - un omaggio a un’ ancora più vasta categoria di nostri simili: quella delle migliaia e migliaia di uomini , donne e bambini sottratti agli affetti dei loro cari,  anche in periodi recenti della nostra storia, per mano di regimi dispotici e sordi al richiamo, anche minimo, di quei  per noi irrinunciabili sentimenti di “humanitas “ e “pietas” che ho sopra evocato. Mi riferisco, per non citare   che alcune delle vicende per molti versi assimilabili a quelle descritte in “Tre anni a Buenos Aires”, al caso dei “ Cristeros”  vittime della feroce repressione del Presidente  Calles nel Messico “rivoluzionario” degli anni ’20  del secolo scorso, agli scomparsi nei “lager” nazisti, alle migliaia di “desaparecidos” in epoca staliniana e, decenni dopo,  nella Cambogia comunista di Pol Pot .  Altrettante “  Urla del silenzio” che “Tre anni a Buenos Aires “ ci aiuta a non dimenticare…

     Il libro mi appare così anche un omaggio al potere della parola scritta. E consentitemi di ricordare al riguardo alcuni versi di “ Nuit et Brouillard ”: la splendida canzone  di Jean Ferrat in memoria degli scomparsi nei campi di concentramento nazisti durante il secondo conflitto mondiale:

“……  mi dicono ora che che il sangue si asciuga presto quando entra nella storia e che non serve a nulla   prendere una chitarra…”.    E invece prendere la chitarra ( o la penna.. come nel caso di Bernardino Osio )  serve e come … 

Direi   che in certi casi, per chi è stato testimone di tali orrori,  è anzi un dovere…

     Anche  di questo dobbiamo , credo, essere riconoscenti all’  Ambasciatore Osio.

      Non vorrei però chiudere -  spero mi consentirete questa breve ma forse  
  non inutile   digressione -  senza citare un passaggio di una conferenza che proprio sul tema dei “desaparecidos” tenne a Parigi all’inizio degli anni’ 80  quel grande  , ormai purtroppo scomparso , scrittore   argentino che e’ Julio Cortazar. Egli cosi si esprimeva sul tema in un intervento dal titolo “ Négacion del olvido” (NdR: “Rifiuto dell’oblio”):

“ ….quanti hanno orchestrato questa terribile tecnica sanno che essa presenta per loro un doppio vantaggio: eliminare un avversario vero o potenziale ( senza contare quelli che non lo erano ma sono caduti nella trappola per il gioco del caso, della brutalità o del sadismo) e  al tempo stesso iniettare, mediante la più mostruosa delle chirurgie, la doppia presenza della paura e della speranza in coloro ai quali tocca vivere la scomparsa di esseri cari.  Da un lato, si sopprime un antagonista reale o virtuale; dall’altro, si creano le condizioni per cui i parenti o amici delle vittime si vedono obbligati in molti casi a tacere come la sola possibilità di salvare la vita di quelli che il loro cuore rifiuta di considerare morti. E se ogni morte implica un’assenza irrimediabile, che dire di questa assenza che si continua a dare come presenza “astratta”, come un ostinato diniego dell’assenza finale? E’ un girone che manca all’Inferno di Dante  , e i governanti del mio Paese , come altri, si sono dati il sinistro compito di crearlo e popolarlo”.

         Ho voluto condividere con Voi questo testo   perché - al di là della sua  qualità letteraria - esso offre  testimonianza diretta, a opera di uno dei più prestigiosi e rispettati intellettuali argentini, di quel clima terribile di paura mista a speranza , di quelle tante domande ( e spesso suppliche..) senza risposte da parte chi invece  poteva fornirle, di quelle porte inesorabilmente chiuse… così ben descritto  in tanti passaggi di “ Tre anni a Buenos Aires” , a ulteriore conferma dello spessore  dell’opera e del suo autore . Un clima che non può non suscitare in noi tutti - proprio nel segno di quel comune denominatore di “humanitas” cui ho sopra fatto riferimento - sentimenti di orrore e   di partecipazione al dolore dei tanti che quelle situazioni hanno in prima persona sperimentato.

    Dolore che    purtroppo ma comprensibilmente più d’uno, incapace di farsene una ragione, non è riuscito a sostenere negli anni .  Anche a queste vittime, per cosi dire indirette, della tragedia dei “desaparecidos” vuole rendere omaggio il libro di Bernardino Osio così come,  ritengo,  la nostra così nutrita presenza qui oggi.        
  A tutti un sincero grazie per l’attenzione

 

 

«Nemmeno uno sprazzo di speranza…». Il diplomatico italiano e i desaparecidos in «Argentina».
Intervento del Prof. Luigi Labruna 

       Vi sono libri che si fanno sminuzzare capitolo per capitolo, parte per parte. Che si possono smontare e rimontare mentre il lettore osserva distaccato ciò che da queste operazioni risulta, sforzandosi di connetterne i lacerti e tentando di stabilirne per ognuno il significato nell’insieme della storia. Libri leggendo i quali si riesce, cioè, a compiere un insieme di indagini razionali che conducono a riconoscere i caratteri e il grado di coerenza, certezza, autenticità degli episodi descritti per collocarli poi nella personale ricostruzione della vicenda.
        Vi sono opere, invece, che si impongono a chi ad esse si avvicina e vengono immediatamente intese e accettate nella loro interezza così come proposte dall’autore. Giacché sono capaci di coinvolgere il lettore e trascinarlo subito in un itinerario intellettuale ed emotivo complesso, in cui i fatti di cui è reso partecipe diventano memoria. Individuale e, insieme, collettiva. Il tempo e il vissuto, infatti, in esse non vengono intesi come rifugio o evasione: diventano piuttosto rievocazione, spesso dolente, di eventi remoti che si attualizzano nel loro significato etico e politico. E si trasformano in ammonimenti per il presente e soprattutto per il futuro.
           Il che (mi è capitato più volte di sottolinearlo) è particolarmente importante in questa difficile fase della nostra vita politico-istituzionale e culturale in cui una sorta di diffusa smemoratezza storica attanaglia molti. E in cui il disseccarsi, purtroppo generalizzato, delle persuasioni etiche e «ideologiche» rende lontane e come annebbiate vicende del passato, nostro e altrui, imprescindibili per un’adeguata comprensione del presente. Mentre abbiamo ancor oggi (specialmente oggi) bisogno della storia. Di una storia che si faccia carico della dimensione globale del mondo. Giacché è solo coniugando il passato, i suoi valori e i suoi (anche tragici) errori con la contemporaneità che è possibile riflettere seriamente anche sui gravi problemi che attualmente ci affliggono. In special modo sull’ambiguità del potere, la fragilità del bene comune, le difficoltà che insidiano la stessa democrazia e la pace in un mondo globalizzato in cui differenze, squilibri, contraddizioni e radicate ingiustizie (tra e nei popoli) persistono, si aggrovigliano e sempre più diventano intollerabili e minacciose.

         Appartiene a questa seconda categoria di opere Tre anni a Buenos Aires. 1975-78, un saggio di straordinario interesse, gravido di vita e di rabbia, forte di ricordi, osservazioni, dispacci, lettere (personali o ufficiali), tracce di incontri con uomini famosi o ignoti e disperati, tra cui non pochi discendenti di vecchi nostri emigrati, a uno dei quali, Romolo Cavallo, piemontese di Asti, di professione falegname, espatriato fanciullo in Argentina e padre del giovane Alberto, desaparecido nel 1976 e mai più ricomparso, l’autore lo dedica. Con l’angoscia di non essere mai riuscito a dargli sino alla morte avvenuta per crepacuore nel 1989  e nonostante ogni tentativo profuso nel ricercarlo, «nemmeno uno sprazzo di speranza» di rivedere il figlio.
           Già dalla dedica, dunque, è possibile comprendere l’animo con cui l’ambasciatore Osio ha scritto questo libro. Non rinunciando in nessun momento a scavare con energia e indignazione, mai disgiunta da umana pietas, il dramma di un popolo, per tante ragioni, storiche e di sangue, vicino a noi, straziato dalla sopraffazione, dalle carenze della politica (sua e altrui; anche nostra). E a renderci partecipi dell’angoscia di tanti uomini e donne e famiglie e amici caduti in balia di una violenza cieca alimentata da militari, sempre più brutali col passare del tempo. Una dittatura che ricorreva sistematicamente alla pratica scellerata, adottata da molti regimi autoritari (militari e no), di arrestare gli oppositori, i sovversivi o sospetti tali, torturarli e il più delle volte farli scomparire nel nulla. Per ingenerare terrore, scoraggiare ogni resistenza e persino le aperte reazioni dei parenti che magari si illudevano che gli scomparsi non fossero stati ancora uccisi e tacevano temendo di aggravarne la sorte sconosciuta.

             Malgrado il tentativo dei militari di mantenere occulte quelle stragi, l’opinione pubblica internazionale insorse e molti governi reagirono duramene nei confronti della dittatura. Il governo italiano (della cui azione l’autore denuncia senza mezzi termini l’ambiguità) non fece lo stesso. Quasi «pensasse – scrive – di salvare la propria coscienza con le continue forti prese di posizione contro Pinochet» nei cui confronti vi fu nel nostro Paese una forte mobilitazione soprattutto della sinistra. L’ordine imposto da Videla sembrava ai nostri politici preferibile al caos provocato dalla dissoluzione del populismo peronista.
                Del resto, i nostri interessi in Argentina erano consistenti e da tempo era forte la tela di ragno della P2 che avviluppava esponenti di rilievo italiani e argentini ad essa affiliati. A partire           da molti militari di alto rango e da tutto «il cerchio magico» che aveva ruotato intorno a Perón nella fase declinante del suo potere e che poi aveva esercitato la sua devastante influenza sulla effimera, tragica e grottesca esperienza di governo di Isabelita. Divenuta ben presto completamente succube di uno di quei potenti piduisti, José López Rega, suo consigliere e segretario, che viveva nella quinta presidenziale, e che, con i più autorevoli confratelli coperti argentini (l’ammiraglio Masera, il generale Suárez Mason, l’ammiraglio Guzzetti) fu uno degli artefici del passaggio dal sistema, ancora formalmente democratico, di Isabelita al governo militare. Che, con il suo programma di «reorganización national» e di difesa dei valori cristiani e occidentali, si poneva in indubbia continuità ideologica – ricorda l’ambasciatore Osio – con il progetto della fase declinante di Perón di orientare sempre di più verso l’estrema destra il suo governo.  
             A questa delicata e drammatica fase di transizione ebbe modo di assistere, come si è detto, direttamente e in posizione privilegiata il giovane Osio, tornato in Argentina nel 1975 (dov’era già stato in servizio dal ’65 al ’67 come secondo segretario della nostra Rappresentanza) e che, per la temporanea assenza dalla capitale dell’ambasciatore De Rege, ormai agli sgoccioli della sua permanenza in quel Paese dal quale era in partenza giacché –  nonostante la gravità della situazione politica – era stato (molto poco opportunamente) sostituito da un diplomatico ex ufficiale di cavalleria, «con reputazione di acuta intelligenza» e accesa passione per l’equitazione, che dopo una rovinosa caduta da cavallo era diventato quasi privo di memoria, e con «gravi difficoltà a capire rapidamente le situazioni». Era assente da Buenos Aires anche il ministro consigliere Bassi, in missione, e cosi Osio si ritrovò ad essere «incaricato d’affari» il 24 marzo quando all’alba fu informato dalla Farnesina che Isabelita era stata arrestata e trasferita al Messidor presso Bariloche ben lontano dalla capitale. A séguito del golpe il potere fu assunto dalla Giunta militare formata dai comandanti delle tre forze militari (Videla, Massera e Orlando Ramón) i quali formarono un governo che il nostro Paese (al contrario di quel che aveva fatto e continuò a fare con il regime di Pinochet che fece aspettare 15 anni prima di inviarvi Michelangelo Pisani Massamormile come ambasciatore) riconobbe sollecitamente e (sottolinea in modo critico l’autore) «senza scrupoli, prima che la questione diventasse oggetto di dibattito politico tra i partiti e in Parlamento».

            Già dalle poche notazioni che ho riferito (nel libro ce ne sono molte e molte altre anche più dure come, ad esempio, quelle relative all’ingiunzione della Farnesina ai nostri diplomatici – motivata sul piano dello stretto diritto internazionale, al quale si era però derogato tranquillamente in Cile – di non dare asilo nell’ambasciata agli italo-argentini che vi cercavano rifugio) si capisce bene come questo di cui discutiamo sia un libro sincero e veritiero ma anche (per usare uno stereotipo) «poco diplomatico».
             Un libro che l’autore non avrebbe voluto scrivere: «per non riaprire ferite dolorose. Per non dover ricordare episodi e interventi ambigui. Per non portare alla luce le manchevolezze delle istituzioni. Per non parlare dei politicastri allora annidati nelle logge massoniche sulle due sponde dell’Atlantico». Si è deciso a scriverlo per dare (anche, aggiungo) una testimonianza sulla difficilissima vita che si svolgeva all’interno dell’Ambasciata, una fortezza in cui, «per volontà superiore», si viveva «come rinserrati» – scrive – mentre tutt’intorno «formicolavano gazzettieri e curiosi che tentavano di entrarvi e, respinti, diffamavano». E soprattutto per sfatare la leggenda di un’Ambasciata nel suo complesso insensibile alle tragiche vicende di tanti italiani e italoargentini perseguitati e addirittura amica dei militari e «comprensiva dei loro nefandi eccessi».
           Mentre egli si propone di dimostrare (e a leggere il libro lo fa persuasivamente) che «le tante omissioni e le pochissime prese di posizione, peraltro troppo caute e per nulla proporzionate alla violenza della repressione», che sporadicamente si verificarono furono da addebitare non ai diplomatici dell’Ambasciata (il cui còmpito istituzionale – ricorda – è quello di informare, eventualmente consigliare, ma fondamentalmente seguire gli orientamenti e le prese di posizione del Governo che rappresentano, e attuarne le disposizioni) ma «al nostro mondo politico». Che, mentre l’opinione pubblica internazionale insorgeva e altri Paesi reagivano duramene anche nei confronti di quella dittatura, non riuscì ad influire sui governi dell’epoca e in particolare sui ministri degli Esteri, «i quali (scrive ancora l’autore) pur sapendo quanto accadeva, non vollero dare adeguate istruzioni, né adottare una linea politica di fermezza e di intelligenza». Sicché anche il nostro giovane diplomatico e i (non molti) suoi colleghi, segnati, come lui, dai drammi dei perseguitati, pronti ad aiutarli per quel poco che era possibile, a dar conforto alle madri di Plaza de Mayo (quando si manifestarono) e ai familiari, affrontando pure situazioni non prive di rischi personali, vennero frenati, e ostacolati principalmente dalla sordità non innocente di Roma. E, di riflesso, dalla mancanza di sagacia di un numero uno che (da vecchio militare passato in diplomazia) non concepiva che dei militari potessero infangarsi con orrendi delitti e «considerava che il problema dei diritti umani nelle relazioni tra Italia e Argentina fosse (parole sue) un fatto sgradevole ma non importante, che non doveva turbare le relazioni globali, soprattutto quelle economiche, fra i due paesi». Né potettero contare su un aiuto del nunzio pontificio e delle gerarchie della Chiesa locale anch’essi, a dir poco, molto prudenti, al contrario di molti semplici sacerdoti, destinati a seguire lo stesso destino dei derelitti ai quali tentavano di dare aiuto, e di alcuni vescovi che, sospettati di non essere acquiescenti verso il regime, vennero eliminati in appropriati incidenti stradali. Solo nel 2000 i vescovi argentini, spinti dall’arcivescovo Bergoglio, «chiesero ufficialmente perdono».
           Del resto, all’epoca, tutti i Paesi del Cono Sur (Cile, Brasile, Uruguay, Paraguay, Bolivia) erano governati da regimi militari completamente solidali con quello argentino a cui erano legati dal così detto Piano Condor, che aveva come scopo la comune lotta alla sovversione. E gli Stati Uniti incoraggiavano, più o meno apertamente, Videla e i suoi a mantenere una linea dura nei confronti dei «sovversivi», tanto che il ministro degli esteri Guzzetti in missione a Washington pare si sia sentito dire dal segretario di Stato Kissinger: «se dovete fare certe cose fatele, ma fatele presto».

              Quelle «certe cose» i militari le fecero non solo presto ma con smodata ferocia. Anche se immediatamente dopo il golpe «un’atmosfera di falsa sicurezza s’era diffusa in città: più ordine, più decoro, non più scioperi, non più manifestazioni di piazza» e c’erano personalità di rilievo della così detta società civile – riferisce con amarezza l’autore – che, come spesso accade in analoghe situazioni, non perdevano occasione per blandire i nuovi padroni. Auspicando, come fece Borges, che rimanessero al governo per molti anni («que se queden muchos años») e certificando su una rivista spagnola, con la sua notorietà di scrittore già acerrimo nemico di Perón e del peronismo, che il nuovo governo argentino era formato «de militares, de caballeros, de gente decente».
            E fu così – nota con non celata ironia l’ambasciatore Osio – che il vate nazionale argentino si giocò il premio Nobel. Anche se (bisogna dire) a quell’insuccesso non dovette esser estraneo l’aver egli accettato di incontrare e pranzare con Pinochet (è giusto, però, anche dire che Borges cambiò idee nei confronti della Giunta dei militari, che definì «banditi, folli e criminali», quando le madri di Plaza de Mayo riuscirono a denunciare pubblicamente l’orrore della sparizione dei figli).

                Quello dei rapporti fra intellettuali e regime militare e quello dello svolgimento della vita intellettuale in Argentina, insieme con l’intreccio di rapporti privilegiati e di amicizia che Osio riuscì a intrecciare con esponenti di rilievo di quel mondo durante le sue missioni in quel Paese, sono altri temi di notevole interesse che emergono dal libro. Nel quale è delineata, ad esempio, con un delicato sentimento di confidenza e di stima, la personalità di Victoria Ocampo, la colta e raffinata scrittrice ed editrice della rivista Sur, che tanto contribuì a far conoscere, non solo nel suo Paese, giovani scrittori e poeti argentini insieme con significativi autori stranieri (francesi e statunitensi soprattutto), e che a lungo animò (opponendosi, tra l’altro, al peronismo al punto da esser mandata in prigione per un non breve periodo) la vita culturale argentina. Fu, inoltre, la prima donna a essere chiamata a far parte della prestigiosa Accademia di Lettere del Paese. Alla seduta di insediamento (in cui, ormai gravemente malata, tenne un discorso «pieno di sottile ironia e con molte citazioni di Dante» del quale era straordinaria conoscitrice) fece a tempo ad assistere Osio che riferisce del disagio che si diffuse tra i presenti per lo sgarbo plateale compiuto da Borges, il quale disertò nell’occasione il suo seggio accademico pur avendo un forte debito di riconoscenza nei confronti della Ocampo che, ne aveva accolto gli scritti giovanili nella sua rivista, facendo sì che fossero conosciuti e tradotti in Europa.
           Sono episodi questi, che da un lato testimoniano piccole miserie degli uomini (anche i più celebrati), dall’altro, concorrono anch’essi a far intendere le difficoltà e le tensioni di ogni natura che serpeggiavano in tutti gli ambienti in uno dei periodi più oscuri attraversati da quel Paese solo geograficamente da noi lontano.

            Mi fermo qui. Anche se davvero molto altro ancora ci sarebbe da dire su di un libro, che scuote le coscienze, ravviva la consapevolezza e la memoria dei drammi che ha vissuto e che –  seppur in misura non certo comparabile a quella degli anni ’70-’80 del secolo scorso – vive l’Argentina, in cui riaffiorano metodi brutali usati delle autorità di polizia e dell’esercito mentre ancora si continuano a scoprire fosse comuni con le ossa degli oppositori fatti scomparire dai militari.
            Il che, del resto, accade purtroppo anche in altre Nazioni (si pensi all’odierno dramma della Siria) in cui è arduo anche solo concepire le ambiguità politiche, le contraddizioni e gli indicibili interessi che vi si agitano e ne condizionano la vita. E rendono impossibile immaginare un dipanarsi futuro migliore dei loro destini se non riusciranno a liberarsi dalla pressione distruttiva del sottosviluppo (oggi qui e lì occultato in forme inedite) con tutto ciò che esso genera: disoccupazione, indigenza, corruzione, ribellioni, criminalità, non solo comune, stragi.
             Come dimostrano, per fare solo qualche esempio relativo all’ America Latina, le mattanze avvenute in El Salvador, retaggio dell’incoraggiamento governativo alla formazione e diffusione di gruppi armati organizzati in vere e proprie guerriglie per reprimere gli oppositori. O il massacro  dei 43 studenti messicani di Ayotzinapa che, mentre si recavano nella capitale per partecipare ad una manifestazione indetta per ricordare la strage di universitari del 1968, furono catturati a Iguala dall’esercito e dalla polizia, che – come ha accertato, dopo un’inchiesta durata un anno, la commissione d’indagine internazionale nominata, per le pressioni dell’opinione pubblica, dallo stesso governo messicano – furono consegnati, con la complicità dei servizi d’intelligence dell’esercito, ai narcos che li uccisero uno a uno, ne fecero sparire i corpi bruciandoli e gettandone le ceneri in un fiume.
             Mentre (per tornare all’Argentina) in un altro fiume, al tempo dei fatti quasi prosciugato, e a circa mezzo chilometro più a nord e controcorrente rispetto al punto in cui le autorità sostenevano si fosse volontariamente buttato, fu affogato e poi fatto scomparire per mesi un altro giovane, Santiago Maldonado, catturato dalla polizia nel corso della repressione violenta di una manifestazione popolare a sostegno dei Mapuche. Il caso è documentato in un drammatico documento (in cui «deplora profondamente» l’inerzia dell’autorità competente a salvaguardare i diritti umani in Argentina) redatto da uno dei più autorevoli componenti della Corte Suprema di Giustizia argentina e della Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo, Eugenio Raul Zafferoni, emerito di diritto penale dell’Università di Buenos Aires, che me lo ha fatto pervenire. In quel testo, oltre a denunciare il crimine di cui è stato oggetto Maldonado (“che parece ser continuación del genocidio histórico de nuestros hermanos argentinos originarios, tildándolos ahora de terroristas, imputación incluso desmentida por el pastor católico de la zona”), il giudice costituzionale enumera un’impressionante sequenza di violazioni della legalità e di abusi che si stanno perpetrando in Argentina. E denuncia il «cresciente deterioro del Estado de Derecho» che si sta verificando in quel Paese al quale molti di noi per varie ragioni siamo legati e del quale l’ambasciatore Osio – che mostra di averlo molto amato e amarlo –  ha narrato le tragedie subite in questo libro in cui cultura, consapevolezza del dovere compiuto, solidarietà per gli oppressi e impegno civico si intrecciano con l’ansia di non arrendersi alla brutalità disperante della storia. E che su questa costringe tutti noi a meditare.

 

(1) - È la traccia dell’intervento pronunciato il 4 maggio 2018 nella Sala del Parlamentino della Sede storica della Camera di Commercio di Napoli in occasione della presentazione del libro di Bernardino Osio, Tre anni a Buenos Aires. 1975-1978, a cura di L. Guarnieri Calò Carducci (Roma, Viella ed., 2017).

 

 

Ringraziamenti dell’Autore

Innanzitutto il mio primo, caldo ringraziamento, vada all'Ambasciatore Michelangelo Pisani Massamormile, motore di questa presentazione da lui voluta, anche nel quadro delle attività culturali della Compagnia della Disciplina della Croce cui lui dedica, da tempo, un'ammirevole attività, direi quasi una totale dedicazione da autentico napoletano, mirante a conservare per le future generazioni l'illustre passato di questa città.
Ringrazio poi l'amico professor Luigi Labruna, emerito romanista dell'Università Federico II, che già recensì su Repubblica il mio libro con giudizi lusinghieri e immeritati, ringrazio altresì il collega e amico, ambasciatore Gianfranco Verderame che, di buon grado, ha accettato di essere qui presente e di offrire il suo commento e giudizio critico al mio libro, giudizio tanto ponderato in quanto frutto della sua lunga esperienza di diplomatico che lo ha portato a dirigere e conoscere importanti settori della macchina diplomatica italiana. Ringrazio infine il professor Luigi Guarnieri Calò Carducci che ha seguito da vicino la nascita di questo libro, iniziata nel 2015, poi quasi dimenticato in un cassetto e lasciato decantare sino al 2017, quando l'amico Luigi mi spronò a buttarlo in mare, come facevano una volta i naufraghi, lanciando messaggi nelle bottiglie.
E infine un caldissimo ringraziamento alla Camera di Commercio di Napoli e al Club Atlantico napoletano che hanno messo a nostra disposizione questa splendida e storica sala: all'ingegner Giosuè Grimaldi e all'ambasciatore Gabriele Checchia, in particolare il mio grazie più sentito e cordiale.
Come ho scritto nella prefazione, questo è un libro che, ora ripensandoci su, avrei dovuto intitolare diversamentee cioè "Tre anni a Buenos Aires: reminiscenze di Bernardino Osio". Infatti questo libro non è un diario, giorno per giorno, non è un romanzo come ne sono stati scritti su quegli anni, non è un saggio storico sul naufragio del peronismo in Argentina né una storia delle relazioni Italia Argentina in un momento tragico. Sono solamente sprazzi di ricordi, sono testimonianze, sono impressioni: però non vaghe, ma tutto si basa su precisi documenti, da me a suo tempo raccolti e che ora suppliscono, almeno in parte, alla mancanza di un diario, che allora avrei dovuto scrivere ma che non scrissi o per mancanza di tempo o forse anche per pigrizia.
Ma non voglio dilungarmi, già molto si è osservato con discernimento e obiettività, i pochi pregi e i molti difetti del libro. Ormai sono vecchio e sono giunto anch'io all'età della vanità: confesso che ho ascoltato con vero piacere il giudizio che il libro è ben scritto.
Ma quello che vorrei dirvi è che di quell'epoca conservo, soprattutto, come un tesoretto di memorie, non la eco delle dame dell'oligarchia argentina che gridavano nei loro salotti "in questo paese non si uccide abbastanza", ma il ricordo dei tanti miei vecchi Italiani. Italiani che non erano nelle liste degli invitati in ambasciata, ma che venivano quasi tutti i giorni a vedermi, con una fede, con una fiducia, con una speranza che mi commuoveva ma che anche mi imbarazzava ed esasperava per il senso di impotenza che mi pervadeva. Questi indimenticabili Italiani, catapultati laggiù, dopo la seconda guerra mondiale, dalla nostra povertà, erano esponenti di un'Italia semplice, buona, onesta, virtuosa che era miracolosamente sopravvissuta laggiù, quasi alla fine del mondo, e che temo perduta per sempre: e non erano solamente i parenti dei prigionieri e dei desaparecidos ma i tanti vecchi Italiani che ebbi occasione di incontrare: giardinieri, autisti di taxi, artigiani, domestici, vecchi militari che avevano fatto le nostre due guerre: tutti così umani, così buoni che sempre ne conserverò la memoria.
Grazie
Bernardino Osio