Memorie
In Etiopia
di Gianfranco Colognato
Superato il periodo di gestazione come “Volontario in prova”, venni definitivamente assegnato, nell’aprile 1976, con il grado di Secondo Segretario di Legazione alla Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo, Ufficio IV Africa, dati i miei trascorsi come “emigrato-giornalista” ad Asmara, allora Etiopia. Passati alcuni mesi durante i quali effettuai due missioni di cooperazione tecnica in Zambia ed in Tanzania, fui contattato un giorno dal collega Marcello Guidi, appena nominato Ambasciatore presso il Governo rivoluzionario etiopico “D.E.R.G.”1).
Seduti uno di fronte all’altro nel salottino del mio ufficio, il collega esordì informandomi che avrebbe preso servizio da lì ad un mese e, accomodandosi meglio sulla poltrona, mi disse: “Caro Gianfranco, alla Direzione Generale del Personale mi hanno detto che sei un esperto d’Etiopia, visti i tuoi trascorsi pluriennali in quella terra, mentre io non so alcunché del Paese dove trascorrerò i miei prossimi quat- tro anni. Quindi ti sarei grato se potessi illustrarmi non solo la parte relativa alla cooperazione in atto, materia di tua competenza in questo momento, ma soprattutto le tue impressioni e ciò che hai appreso nei tuoi oltre sei anni di permanenza in quella terra. Ho un impegno tra due ore e mezzo, per cui hai tutto il tempo che ti necessita”.
Fui preso alla sprovvista dall’approccio così colloquiale, amichevole; mi sentivo un pò a disagio, devo ammetterlo, ma questo era l’uomo. Per evitare gaffes iniziai in modo deferente, con il Lei. Mi fermò immediatamente e mi disse: “Senti, non sono venuto per essere ossequiato, ma per ascoltare un collega che sa molte cose che io non so e che voglio conoscere, quindi dammi del tu ed andiamo avanti”; mi adeguai.
Parlammo dell’Etiopia e dell’Eritrea per quasi due ore, per la maggior parte io; lui mi ascoltò molto attentamente, ponendomi domande di approfondimento su diversi argomenti.
Ad un certo punto mi disse: “Come ti ho già detto, ho un appuntamento al Ministero con il collega della Direzione Generale degli Affari Economici che si occupa d’Etiopia, perché non mi accompagni e parliamo ancora?”. Accettai.
Avvertii la segreteria della mia assenza, lo accompagnai continuando a parlare.
Prima di incontrare il collega economico, mi guardò e mi disse:
“Verresti con me in Etiopia? Non all’Ambasciata poiché tutti i posti in organico per i funzionari sono coperti, ma ad Asmara al Consolato Generale come numero due, dove collaboreresti con il collega Mario La Cava, a cui è stata assegnata la titolarità della sede, ottima persona e serio funzionario”.
“Ambasciatore - risposi - sono lusingato della tua richiesta e pronto a colla- borare con te ma, come ti ho appena detto, ho lavorato in Etiopia come giornalista alle dipendenze del Dipartimento delle Comunicazioni del Governo imperiale, all’epoca del’Imperatore Haile Sellassie I; tornare oggi potrebbe essere controproducente. Il nuovo Governo potrebbe avere delle remore a causa del mio passato. Non vorrei creare dei problemi a te ed al MAE”.
“Non credo che la tua attività precedente possa essere pregiudizievole nei confronti del tuo attuale ruolo di diplomatico; comunque, terrò conto di quello che mi dici e ti farò sapere”, mi rispose.
Ero lusingato dalla sua richiesta, soprattutto per il fatto che proveniva da un collega della sua levatura.
Avrei fatto qualsiasi cosa pur di tornare nella città dove avevo lavorato per sei anni e mezzo, felice di ritrovarmi con la mia famiglia che in quella città era aumentata con la nascita del primo figlio Renato, e di ricongiungermi con il resto di quella di mia moglie.
Cercavo di superare le mie perplessità pensando che, in effetti, all’epoca ero un privato cittadino e che me n’ero andato prima che avvenisse il cam- biamento politico e sociale nel Paese.
Era passato del tempo. L’Ambasciatore aveva iniziato la sua missione nella capitale etiopica già da diverse settimane e sulla possibilità di tornare nella capitale eritrea ormai non vi facevo più affidamento, quando una mattina venni convocato in Segreteria Generale.
Dopo i saluti, il collega Consigliere d’Ambasciata Boris Biancheri mi disse: “L’Ambasciatore è qui a Roma in missione e ieri l’altro ha parlato di te all’On. Ministro ed al Segretario Generale per inviarti presso il Consolato Generale in Asmara a coprire il posto di numero due, essendo tu un esperto dell’area del Corno d’Africa.”
Cercai di replicare ma il collega continuò: “Devi assumere ad Asmara in quindici giorni, puoi farlo? Per ora sarai trasferito colà come esperto per una missione di tre mesi. Nel frattempo farò predisporre il tuo decreto di trasferimento che riceverai una volta in Sede. Puoi pertanto partire con la famiglia e le masserizie”.
Esternai al collega quanto già avevo detto all’Ambasciatore sulla mia attività precedente in quel Paese. Egli mi rispose che erano tutti d’accordo e che, nel malaugurato caso di un ostacolo da parte dell’Autorità etiopica, si sarebbe provveduto a trovare una soluzione.
In quindici giorni ero all’aeroporto con moglie, figlio, suocera e tante valigie, in partenza per la capitale eritrea.
Il giorno dopo, il 3 settembre, assunsi al Consolato Generale di I° classe in Asmara come Primo Vice Console, mentre il Console Generale giungeva una settimana dopo prendendo possesso della residenza consolare, Villa Roma: una bella villa coloniale, a poco meno di un chilometro dalla via principale e al centro della città, con un grande giardino annesso, posta alla sommità di un leggero declivio degradante sul davanti verso la strada. Metà del piano terreno era occupato da un grande, stupendo salone con porte-finestre che consentivano l’accesso immediato al giardino. In fondo al salone, sul suo pavimento rialzato di tre scalini, un grosso camino in marmo faceva bella mostra di sé, ai lati del quale avrebbero dovuto colpire la vista degli invitati un paio di stupende, alte zanne di elefante, ammirate tante volte nel corso della mia permanenza precedente come emigrato - docente presso l’Istituto Tecnico statale per Geometri e Ragionieri “V. Bottego” e redattore a “Il Quotidiano Eritreo” foglio di quattro pagine edito dal Governo imperiale in lingua italiana - e che questa volta volta brillavano per la loro assenza.
Naturalmente il primo incarico che mi assegnai fu il loro ritrovamento.
Le “indagini” - se così posso chiamarle - iniziarono dalla Residenza: forse erano state trasportate altrove e nascoste per paura di rapine e saccheggi, soprattutto durante la prima fase, quella forse più pericolosa, della presa di potere da parte dei rivoluzionari guidati dal maggiore Menghistu Hailemariam.
Trovai, assieme al Cancelliere che mi assisteva, tutte le altre suppellettili, la cristalleria, la posateria e le porcellane in dotazione alla Residenza ben protette ed inventariate. Controllammo in un secondo momento l’interno del Consolato Generale, unico posto sicuro in tutta la città, ma non le tro- vammo e nessuno fu in grado di dirci qualcosa.
Alcuni giorni dopo ci recammo a casa di un personaggio della comunità, membro di una delle famiglie più note, già da diversi lustri nella capitale eritrea, incaricato della manutenzione ordinaria di Villa Roma, per fare il punto su alcuni lavori di manutenzione da effettuare presso la Sede consolare. Con grossa sorpresa vedemmo le zanne che troneggiavano in salone. Il nostro ospite, che conoscevo essendo stato suo collega per sei anni come insegnante all’Istituto Tecnico summenzionato, mi disse che le aveva portate a casa sua per paura che potessero essere rubate, considerato che la Villa era disabitata. Conoscendolo, non ebbi motivo di non credere alle sue parole ma, gli risposi, che sarebbe stato più logico e senz’altro più sicuro un trasferimento delle stesse all’interno dell’edificio del Consolato Generale, anche per evitare le malelingue dei malpensanti.
Così le zanne tornarono accanto al loro camino, a Villa Roma.
Il primo contatto con ciò che restava della “Colonia” avvenne con la mia presentazione ai dipendenti del Consolato Generale nel corso della visita alla struttura, dove avrei dovuto lavorare per i successivi quattro anni, che ogni nuovo arrivato compie.
Nella maggior parte degli uffici vi lavoravano contrattisti locali italiani che vivevano ad Asmara con le loro famiglie e con il passato delle loro vite, i cui legami con quella terra risalivano, per alcuni di loro, ai tempi della guerra d’Etiopia del 1935, per altri addirittura agli inizi del 1900, quando i primi Italiani vi si recarono facendone la loro nuova Patria. E non erano i più “anziani” della “colonia”, annoverandosene alcuni i cui genitori od addirittura i nonni vi si erano stabiliti nell’ultima decade dell’Ottocento, a seguito dello sbarco del primo consistente nucleo di truppe italiane a Massaua e della conseguente occupazione del territorio circostante, fulcro di quello che diventerà l’”Impero”: cioè la creazione del Governatorato Generale dell’Eritrea alla guida del Governatore Generale, Ferdinando Martini.
Le prime due settimane mi servirono per aggiornare le mie conoscenze sui cambiamenti avvenuti dopo il mio rimpatrio con tutta la famiglia nel giugno 1974, per prendere contatto con la nuova realtà italiana, eritrea ed etiopica, leggere i fascicoli aperti negli ultimi sei mesi e rendermi conto di quali tipi di problematiche erano state portate all’attenzione dell’Ufficio. Dovevo tenere a mente altresì che la Sede non aveva solo valenza consolare, ma anche politica, tenuto conto di una guerriglia in atto contro il Governo centrale, in corso da più di quindici anni per il conseguimento dell’indipendenza da par- te di diversi Fronti di Liberazione sovvenzionati dalle più svariate fonti.
Che un grosso cambiamento in negativo fosse avvenuto nella comunità ita- liana in generale era un dato di fatto: fisicamente la sua consistenza si era ridotta a poco più di due/trecento unità rispetto al migliaio che avevo lascia- to a suo tempo, così come dal punto di vista economico-sociale vi era stato un depauperamento consistente.
Chi era potuto partire, evacuato a bordo di aerei militari italiani nel febbraio 1975, lo aveva fatto portando con sé quello che poteva e lasciando la o le proprietà a dei “procuratori...!” italiani - su questo argomento occorrerebbe aprire un capitolo a parte - con la speranza di poter tornare nel Paese e rientrare in possesso dei propri beni. Pochi furono quelli che ebbero la pos- sibilità od il coraggio di farlo; molti di meno quelli che furono in grado di tornare in possesso dei loro beni o di adeguati indennizzi all’indomani delle confische e delle nazionalizzazioni da parte del Governo etiopico.
Di coloro che erano rimasti per vari motivi tutti personali, un certo numero in verità esiguo faceva parte sì della comunità in quanto cittadini italiani, ma viveva al margine di essa o meglio, per essere più chiari, ne era stata esclusa. Erano persone avanti negli anni, ben oltre i settanta, senza alcun sostentamento regolare, ben al di sotto dei limiti della sopravvivenza, abbandonati dalle famiglie locali che avevano costituito di fatto, quasi certamente senza famiglia in Italia o magari con una famiglia che avevano a loro volta lasciato trent’anni prima per venire a combattere la guerra d’Etiopia e costruire un impero, e rimanendovi poi per una ragione o per un’al- tra. Questo era il gruppo che gli “altri” italiani definiva degli “insabbiati”, di coloro cioè che, per ragioni di convenienza, si erano “sistemati” localmente.
Sapevo che erano disperati, ma di tornare in Italia non ne avevano alcuna intenzione, come appurai personalmente a seguito della visita di due di loro.
Il primo che incontrai per ragioni di servizio nel mio ufficio era veramente mal ridotto in panni ed in salute. Gli chiesti dove abitasse, non seppe dirmi il nome della strada ma mi disse che viveva a ridosso di un muro, coperto da ondulati di zinco e di cartone. Gli spiegai che avrei potuto aiutarlo se mi avesse dato almeno un indirizzo in Italia, in modo da prendere contatto con qualche familiare, ma fu tutto inutile. Azzardai l’ipotesi che potevo farlo ri- coverare presso un Istituto per anziani in modo che trascorresse gli ultimi anni serenamente. Mi guardò, si alzò dalla sedia e prendendosi quella che un giorno doveva essere stata una giacca, quasi mi urlò con le lacrime agli occhi:
“Ma dove vado? Non vedi come sono ridotto? Non voglio andare in Italia! Non voglio farmi vedere così, in queste condizioni!”.
Sofferenza e dolore, angoscia, rimorsi, c’era tutto in quelle parole, in quello sfogo, tutta la sua vita con i suoi errori, con il suo fallimento. Sono certo che aveva già deciso da tempo di morire in terra d’Etiopia piuttosto che tornare in Italia senza un minimo di dignità.
Dovetti accettare le sue parole; gli feci dare dal Cancelliere un sussidio di 50 Dollari etiopici (la moneta corrente locale) non certo il massimo previsto dall’allora vigente normativa per la concessione di sussidi, ma questo mi permetteva di aiutarlo ancora in futuro e, soprattutto, se l’avessero derubato volente o nolente fuori dalla Sede, non gli avrebbero tolto molto.
Il secondo era un italiano che teneva per mano un bambino di colore. Entrò nel mio ufficio e mi disse subito:
“Signor Consolato(!) voglio riconoscere questo bambino: è mio figlio. Si chiama Mario”, e si sedette su una delle due sedie davanti alla scrivania. Avrà avuto ben oltre i settant’anni: piccolo, bianco di capelli, il volto segna- to dalle difficoltà, dal duro lavoro, cotto dal sole.
“Lei come si chiama e quanti anni ha?” gli chiesi.
“Settanta”, mi rispose e mi dette il suo nome, dicendomi poi che Mario aveva due anni. Mi feci portare il fascicolo del connazionale: aveva settantanove anni e voleva farmi credere di aver avuto quel bambino due anni prima.
Mi ci volle un pò di tempo ma riuscii a convincerlo a dire la verità: non sapeva come fare a tirare avanti, la compagna eritrea o moglie, non so, lo aveva messo alla porta da qualche anno perché non portava più soldi a casa, viveva per strada, dormendo dove poteva e mangiando grazie alla carità della gente. Mi disse di aver lasciato l’Italia da militare nel 1935 per la guerra d’Etiopia. Tornato civile, non aveva più lasciato il Paese, abbandonando in Patria moglie e due figli e, di questo ne era particolarmente ad- dolorato; ma ciò per cui maggiormente si struggeva era soprattutto un altro rammarico: “Sono partito per la colonia e non sono riuscito a mettere da parte nemmeno un soldo: la famiglia qui mi ha mangiato tutto e mi ha letteralmente messo fuori di casa perché non ho più alcunché da dare. Se tor- nassi in Italia cosa direbbero i miei familiari? E i miei parenti, la gente del paese, che mi aveva visto partire e mi avrebbe rivisto dopo tanti anni pensando di me il meglio, che fossi arrivato come uomo, e invece ...”. L’orgoglio e la dignità posti di fronte all’insuccesso nella vita, ai fallimenti, gli rimordevano la coscienza e lo costringevano a quella vita di degrado pur di evitare di tornare in Italia.
“No, non lo farò mai!”, mi gridò, ed anche a lui feci dare un sussidio.
Scoprii poi che il mio interlocutore non era il solo che aveva tentato di ven- dere il proprio nome e, con esso, la cittadinanza italiana. La cifra che generalmente veniva richiesta per questa transazione si aggirava tra un minimo di 50 ed un massimo di 200 Dollari etiopici, soprattutto in favore di bambini nati da unioni miste.
Molti altri in precedenza avevano tentato ed alcuni, soprattutto i primi, vi erano anche riusciti; sicuramente altri avrebbero tentato ancora.
Tranne pensare a possibili conseguenze in connessione con la mia attività condotta sotto il precedente Governo etiopico, non mi ero mai soffermato a riflettere sul fatto che la mia presenza ad Asmara, con le mie conoscenze dirette del passato, avrebbe potuto creare in alcuni membri della nostra comunità delle aspettative così come delle preoccupazioni.
Avendoci vissuto quasi sette anni ed avendo quindi conoscenza di fatti e di persone di prima mano prima del cambio di regime, o di fatti e di persone dopo il rivolgimento politico grazie a mio cognato che da Asmara non si era mosso nemmeno al momento dell’evacuazione della comunità italiana, potevo, indossando la veste della Autorità pubblica, venire a conoscenza di cose o fatti che per alcuni era meglio portare alla luce e magari denunciare, per altri da non mettere in piazza.
Avrei dovuto immaginare che alcuni elementi mi avrebbero visto come il fumo negli occhi, altri come il raddrizzatore di torti ma non mi venne in mente. A tale proposito vale la pena citare un episodio emblematico che consente di fare luce su ciò che avvenne in seguito ed a cui sul momento non avevo pensato.
Mi trovavo una mattina nel mio ufficio e stavo riflettendo su quanto l’Amba- sciatore mi aveva detto in via confidenziale: “Ho parlato con il tuo predecessore, so che lo conosci bene. Mi ha informato che all’interno del Consolato Generale, tra gli uscieri, vi è un militante di uno dei Fronti; mi ha fatto un nome ma purtroppo non lo ricordo. Fai pertanto molta attenzione a come ti muovi, a quello che dici ed a chi ricevi. Se riesci a capire chi può essere, fammelo sapere”.
Stavo quindi riflettendo a come venirne a capo quando un usciere mi informò che avevo una visita, la Professoressa Tizia(!).
Devo dire che non ne rimasi particolarmente meravigliato, considerato che avevamo lavorato insieme come docenti nella stessa scuola per sei anni e quasi nelle stesse classi; pensai quindi ad una visita di benvenuto.
Le scuole italiane statali, elementare, media, tecnica per geometri e ragio- nieri, e superiore (Liceo scientifico) funzionavano regolarmente. Nella mia precedente vita da emigrato, le superiori, Istituto tecnico e Liceo, avevano docenti, assieme ai due Presidi responsabili, provenienti dall’Italia su incarico del Ministero degli Affari Esteri e parte erano assunti in loco. Gli studenti frequentanti erano in maggioranza locali almeno l’80%, mentre gli ita- liani il restante 20%.
Ero stato messo a conoscenza, non ufficialmente, che la mia visitatrice era stata nominata Preside dell’Istituto Tecnico Bottego: dati i consistenti tagli al relativo capitolo l’Amministrazione aveva ridotto anche la presenza di in- segnati di ruolo, ma io avevo semplicemente registrato l’informazione, riservandomi di incontrarla ufficialmente a tempo debito, quando cioè mi sarei interessato della scuola.
Dopo i convenevoli d’uso, domande sulle rispettive famiglie, sul tempo trascorso, Tizia mi chiese: “Sai che sono stata nominata Preside dell’Istituto?” Risposi che non mi ero ancora documentato sugli ultimi anni dell’attività scolastica e che quindi non ne ero ancora venuto a conoscenza ufficialmente; avrei sicuramente provveduto a compiere una visita alla scuola nel corso della quale avrei contattato i relativi responsabili.
“So che hai intenzione di rimuovermi dall’incarico perché ritieni che io sia troppo giovane per svolgerlo professionalmente. Stai tranquillo che se succederà, non rimarrò con le mani in mano, non lo accetterò e mi farò sentire! Meglio mettere subito le mani avanti per non cadere indietro, tanto so bene come vanno a finire queste cose! Adesso sei informato”.
Se non furono proprio queste le parole pronunciate, lo furono comunque al 80%.
Non mi sarei mai aspettato una tale presa di posizione, visto che non l’avevo in alcun modo stuzzicata, né sapevo a cosa alludesse con “io so come vanno queste cose”.
Ne rimasi piuttosto sorpreso negativamente, per il fatto che era una ex col- lega con cui avevo avuto sempre buoni rapporti e che mi sapeva una per- sona moderata, tranquilla, con i piedi per terra, per cui non capii assolutamente il perché di quella reazione.
Appena giunti ad Asmara, i primi che avevamo visto erano ovviamente la sorella di mia moglie, suo marito e la figlia, e loro con l’Istituto Bottego e con il Liceo Martini non avevano alcunché a che fare, tra l’altro mio cognato era molto amico del marito della docente.
Come si può immaginare, tutte le occasioni che avevamo in quei primi giorni di stare insieme ci portavano a chiedere di questo e di quell’altro, e loro, per la loro parte, erano ben contenti di metterci al corrente di quello che era successo durante la nostra assenza, dei cambiamenti avvenuti nel frattempo nell’ambito della comunità: chi era morto, chi era rimpatriato definitivamente, chi stava facendo cosa, commentando i fatti e gli avvenimenti come si fa normalmente in famiglia.
La guardai attentamente e le risposi:
“Premesso che non ero ancora ufficialmente a conoscenza della nomina del Preside dell’Istituto, non sono la persona, o meglio il funzionario che decide di rimuovere un Preside sulla base della simpatia o dell’antipatia o dell’età. Però posso dire questo: se la nomina è stata effettuata nel rispetto della legge, nulla da eccepire, ma la Preside dovrà fin da ora agire in conformità con la normativa scolastica nell’espletamento delle sue funzioni, se vuole rimanere in carica. Se non si conformerà all’ordinamento, adotterò tutti i provvedimenti che reputerò necessari al momento. Buongiorno”, e la congedai.
Non ebbi più modo di vederla se non in Italia, molti anni dopo, quando as- sieme a mia moglie ed a Renato andammo a trovare lei e la sua famiglia in una cittadina della Toscana.
Comunque, non ebbi il tempo di essere né fumo negli occhi né raddrizzatore di torti poiché, quasi alla vigilia del mio primo mese di permanenza nella capitale eritrea, il collega numero due dell’Ambasciata comunicò che non ero gradito al regime e che pertanto dovevo lasciare il Paese in una settimana.
La “tegola” che mi figuravo volteggiare sopra di me smise di volare e di es- sere virtuale per cadere regolarmente e puntualmente dove doveva, sulla mia testa.
La stessa sorte era toccata alcuni mesi prima al mio predecessore, citato dall’Ambasciatore, il quale, pur con tutte le cautele e le precauzioni adottate per il caso, si era forse scoperto troppo per aver trattato il rilascio, con successo, del nostro Console onorario a Massaua, incontrandosi con alcuni rappresentati del Fronte, che l’avevano in ostaggio, sulla rotabile Asmara-Cheren.
La famigerata telefonata giunse la mattina del 2 ottobre.
Mi trovavo nell’ufficio del Console Generale per fare il punto su una situazione consolare particolare. Il telefono squillò. Il collega La Cava alzò la cornetta e rispose di essere il Console Generale. Lo vidi ad un certo punto sbiancare in viso ed esclamare: “E adesso? Come facciamo?” per poi continuare: ”Va bene, glielo dirò. Fatemi sapere cosa succederà nelle prossime ore. A presto”.
Era pallido; gli detti un bicchier d’acqua e naturalmente gli chiesi se era possibile conoscere il tenore della telefonata, visti i risultati.
“Era l’Ambasciata. - mi rispose - Il collega Umberto Colesanti mi ha detto che stamane il Ministero degli Affari Esteri lo ha convocato per comunicargli che tu non sei gradito e che pertanto dovrai lasciare il territorio entro sette giorni. Se dovessi rifiutare, ti considererebbero ufficialmente “persona non grata” con l’impossibilità di rimettere piede in questo Paese in un’altra veste”.
Immaginate come mi sentii in quel momento: ero appena giunto in Sede con la famiglia, avevo spedito le mie masserizie che sarebbero arrivate a Massaua lo stesso giorno della mia partenza dall’Etiopia e l’atto di trasferimento come promessomi dal collega di Roma non era ancora giunto!
Pur avendo sempre saputo che vi potevano essere degli ostacoli alla mia presenza in Etiopia, avevo continuato a sperare vivamente sulla inconsistenza delle mie elucubrazioni, del resto alcuni giorni prima avevo ricevuto dalle Autorità locali competenti l’“Exequatur” ed il tesserino diplomatico di riconoscimento: e invece....
In quel momento mi stava crollato il mondo addosso: avevo una famiglia con un bimbo di quattro anni, il mio stipendio romano era veramente basso e non ero assolutamente in grado di integrarlo con altre entrate, non avevo una abitazione dove poter dormire e sistemare la famiglia né una vettura per gli spostamenti, con tante spese effettuate.
Chiamammo subito l’Ambasciatore, a Roma per consultazioni dall’On. Ministro, il quale rispose che sarebbe rientrato subito in Sede e che avrebbe cercato personalmente di capire cosa avesse spinto il Governo etiopico ad adottare quella decisione e se c’era margine di manovra per farmi rimanere ad Asmara.
L’Ambasciatore cercò in tutti i modi di far modificare la posizione assunta dalle Autorità etiopiche nei miei confronti, ma non vi riuscì. Nel corso della conversazione telefonica successiva al suo rientro, mi disse: “Parti tranquillo, il Ministero troverà una soluzione. Comunque sarò a Roma tra cinque giorni per seguire le tue vicende. Teniamoci in contatto”.
Non mi detti per vinto. Il giorno dopo la notizia, mi recai al Dipartimento del Protocollo, sede distaccata del Ministero degli Affari Esteri etiopico, dove venni ricevuto dal collega responsabile sul quale riversai la più forte protesta che potei mettere in atto per l’atteggiamento assunto dal suo Ministero nei miei confronti, esigendo di sapere le motivazioni per le quali sarei dovuto ritornare in Italia.
Era come parlare con un muro: diceva di non sapere alcunché, che non poteva darmi le risposte perché non era a conoscenza dell’accaduto!
Dopo un momento di silenzio continuò, abbassando il tono di voce, più o meno con queste parole:
“Sono veramente dispiaciuto come collega per quanto ti è accaduto, ma certamente il tuo Ministero sarà in grado di assegnarti ad un altro posto. E’ meglio così per te e per la tua famiglia. Lavorare qui ad Asmara non sarebbe stato per te né facile né salutare. E’ vero che siamo qui per tutte le necessità del Corpo Consolare straniero, ma purtroppo non siamo in grado di intervenire sempre ed ovunque per la incolumità fisica dei suoi membri”. Poi aggiunse: “Devi restituire il tesserino diplomatico”.
Gli risposi che il tesserino diplomatico lo avrebbe ricevuto solo dopo la mia partenza dall’Etiopia e non prima perché, fino a quando sarei rimasto in territorio etiopico, dovevo essere considerato a tutti gli effetti un diplomatico della Repubblica Italiana nell’esercizio delle sue funzioni, fino all’ultimo giorno concessomi.
Doveva sapere parecchio per dirmi le parole che aveva pronunciato, anche se per un pò di tempo non riuscii a capire se le aveva dette con cognizione di causa e, quindi, se già sapeva che non avrei avuto vita facile in Eritrea. Quante volte mi sono chiesto: ma da chi e perché mi sarei dovuto guardare le spalle?
Qualche giorno prima della partenza, mi trovavo in ufficio a sistemare i documenti ed a chiudere i fascicoli per riporre tutte le mie cose in un paio di cartoni quando il Console Generale mi chiamò. Mi recai nel suo ufficio e senza preamboli mi disse:
“Ho parlato con mia moglie e siamo d’accordo che, tenuto conto che non hai un’abitazione dove andare ed un figlio piccolo di quattro anni, tu vada a casa nostra, a Roma. Questa è la chiave.” Rifiutai subito opponendo tutta una serie di motivi tra cui la presenza della figlia che sicuramente avrebbe voluto stare da sola. Egli mi smontò dicendomi:
“Vedi, Gianfranco, la nostra offerta, oltre che ad alleviare un tuo serio problema e questo ci fa felici, ci aiuta a risolverne un altro. Dovrebbe arrivare tra una ventina di giorni lo spedizioniere a raccogliere parte delle nostre masserizie e spedirle qui e mia figlia non è quasi mai in casa. La tua presenza ora sarebbe per noi veramente importante”. Ricusai ancora la sua offerta ma, riflettendo su tutto quello che di negativo mi aspettava a Roma, alla fine cedetti ed accettai.
Rimanemmo nell’abitazione del collega per un mese circa, poi ci trasfer- immo da mia madre, sulla Tiburtina, che, nel frattempo, aveva sistemato alla meglio la sua piccola casa per ospitarci.
La Cava è stato veramente una persona eccellente ed un funzionario preciso, serio e soprattutto responsabile. Non mi conosceva, avevamo lavora- to insieme una quindicina di giorni, eppure non ha esitato a lasciarmi la casa, ad offrirmi l’aiuto di cui avevo in quel momento bisogno.
Mia moglie Luciana aveva lasciato ad Asmara, all’epoca del nostro rimpatrio, diverse amiche eritree, tra le quali una - ricordo solo il suo nome di battesimo Adanesh - che, all’epoca, lavorava come segretaria del Vice Governatore Generale dell’Eritrea, Omar Karar, un bravo musulmano, una persona moderata e tollerante natia di Cheren, che era stato nominato a quella carica all’epoca del Governo imperiale.
La chiamò al telefono e le spiegò cosa ci stesse accadendo. La sua inter- locutrice la rassicurò dicendole che ne avrebbe parlato con il Vice Governatore Generale e che ci avrebbe dato notizie. Non ne avemmo fino alla mattina del giorno precedente la nostra partenza, quando ricevemmo la te- lefonata di questa amica che mi mise in contatto con lui:
“Carissimo buongiorno - mi salutò in un ottimo italiano - mi dispiace di doverLe parlare in questa occasione e non in una più lieta. Comunque ho fatto delle chiacchierate qui e là ed a seguito di ciò mi permetta di augurarLe un futuro che in altra Sede sarà sicuramente di successo. Le assicuro che la Sua partenza è per Lei la conclusione migliore di questa parentesi etiopica. Non ci pensi, tutto va a Suo vantaggio e, mi creda, è per il Suo bene. Arrivederci”.
Allora mi vennero in mente le parole che il responsabile della sezione distaccata del Protocollo aveva pronunciato sottotono durante la mia visita.
Era l’imbrunire. Si stava concludendo il giorno della vigilia della nostra partenza e quella fresca sera d’autunno sembrava volerci salutare donandoci tutti i profumi del mondo, portandoci i suoni limpidi della vita notturna, una notte da “Mille ed una notte” che avremmo voluto non finisse mai e che sicuramente ci era stata concessa per non dimenticare.
Commentavamo con i parenti la nostra “disavventura” etiopica, quando sentimmo suonare il campanello. Guardai mia moglie sorpreso e preoccupato: nessuno si era proposto in precedenza per farci visita perché nessuno sapeva che saremmo partiti definitivamente.
Andai ad aprire la porta e mi trovai davanti Adanesh, l’amica di mia moglie. Ci salutammo con affetto, la feci entrare ed accomodare in salotto.
“Come mai sei qui?” le chiese mia moglie dopo i baci di rito.
“Non potevo lasciarvi andare senza salutarvi ed augurarvi ogni bene ed ogni successo. - rispose lei e continuò - I saluti che porto non sono solo i miei ma anche quelli del Vice Governatore Generale che, per ovvie ragioni che voi comprenderete, non è potuto venire di persona. Ha comunque voluto farvi un regalo per la vostra partenza, sottolineando ancora che questa è la vostra fortuna”.
Aprì la borsetta e vi rovistò dentro, in silenzio, fino a tirarne fuori una fotografia in bianco e nero: ritraeva un consistente gruppo di persone davanti alle quali, in primo piano, appariva S.M.I. Haile Sellassie I; un pò defilato, in quarta posizione, uno spicchio del viso del sottoscritto.
Ricordavo bene quella foto, mi ritraeva in un momento della mia vita precedente di cronista de “Il Quotidiano Eritreo”: Sua Maestà l’Imperatore si trovava ad Asmara per la consueta visita annuale alla Provincia dell’Eritrea ed io facevo il servizio giornalistico. Avevo sempre cercato di defilarmi dai fotografi; quella volta non vi ero riuscito completamente.
Parlando sottovoce, come una cospiratrice, Adanesh disse:
“Ecco, questo è il documento che ha consentito ad Addis Abeba di adottare nei confronti di Gianfranco il provvedimento che conoscete. Questa fotografia, datami dal Vice Governatore Generale, non è la sola, ve ne sono altre; sono state consegnate al Ministero degli Affari Esteri da un vostro connazionale, membro di questa comunità”.
La assalimmo letteralmente, Luciana ed io, con un mare di domande ma tutte convergenti verso: “Chi è stato?”.
Lei si schermì dicendo che il suo capo non le aveva voluto dire il nome del delatore per ovvie ragioni: capimmo comunque che lui sapeva chi fosse stato. Mia moglie ed io ci guardammo come se entrambi avessimo capito contemporaneamente e pensato a chi attribuire quel tiro mancino: comunque eravamo certi che non fosse stata la Professoressa.
Partimmo il giorno dopo, l’11 ottobre, carichi di valigie e fagotti per rientrare a Roma.
Una decina di giorni prima, come talvolta accade in queste particolari occasioni, avevo ricevuto in ufficio copia del manifesto del movimento portua- le di Massaua da cui avevo appreso che la nave con le mie masserizie avrebbe attraccato il giorno prima della mia partenza: quindi sarebbero state scaricate il giorno dopo, l’11, come avevo previsto!
Ero provato: la posizione etiopica pesava non poco, con essa l’organizzazione e la logistica di tre adulti ed un bambino da curare fino alla partenza dell’aereo, chiudere l’ufficio e tutte le pratiche che avevo aperto, combattere con lo spedizioniere per fargli capire cosa stesse succedendo e far quindi rientrare le mie masserizie senza farle scaricare a Massaua, convincerlo che avrebbe comunque avuto le sue spettanze malgrado tutto, chiudere la casa dove avevamo abitato per un mese, pensare al dopo Asmara e tutto questo sulle spese.
La figlia del Console Generale era già stata avvertita da suo padre quando la contattai; mi disse che quel fine settimana non sarebbe stata in casa e quindi non vi erano assolutamente problemi e che avendo io la chiave potevo entrare a mio piacimento: lei aveva la sua parte di casa.
Rimanemmo in quella casa fino a quando non giunse lo spedizioniere ad imballare tutti i mobili. Una volta finito il lavoro, anche noi traslocammo, ed andammo da mia madre, sulla Tiburtina.
Roma, 12 febbraio 2015
1) Governo militare etiopico di ispirazione comunista, in carica dal 1974 al 1987 la cui sigla è una parola “ghe-ez”, antica lingua etiopica ora usata unicamente nella liturgia, che significa “consiglio”, ed era infatti il “Consiglio di Coordinamento delle Forze Armate, della Polizia e delle Forze Territoriali”, guidato inizialmente dal Generale Aman Michael Andom e, dopo la sua eliminazione da parte del triumvirato a capo dei golpisti, dal Generale Tafari Banti, anch’egli giustiziato per divergenze politiche poco tempo dopo.
Salì al potere, per un primo mandato di undici giorni, il numero uno del triumvirato, il maggiore Menghistu Hailemariam nel febbraio 1977, fautore e sostenitore, assieme ad altri colleghi, della rivoluzione etiopica iniziata con rivendicazioni sociali da parte dell’Esercito nel gennaio1974 e conclusasi con la sua caduta avvenuta il 10 settembre 1987. Questo fatto fu l’inizio di una più accesa lotta dei movimenti di liberazione eritrei e tigrini. Quattro anni dopo infatti, il 24 maggio 1991, l’Eritrea proclamava la sua indipendenza.
Gianfranco Colognato