Memorie



UNA SOLUZIONE CON UN PIZZICO DI FANTASIA POCO ORTODOSSA
… ed un finale a sorpresa

di Gianfranco Varvesi

Nell’ormai lontano luglio del 1980 mi sono recato alla Corte dei Conti, ove il decreto del mio trasferimento a Tripoli si era arenato. Un gentilissimo impiegato ha iniziato la ricerca fra tutte quelle carte, ammassate con indifferenza burocratica e senza la consapevolezza che da esse dipende il nostro futuro. Mentre portava avanti l’arduo compito, con la benevolenza che gli veniva anche dai suoi capelli grigi, mi ha chiesto come mai avessi tanta fretta per andare in Libia: “non vi capisco a voi diplomatici, vi mandano in certi postacci e siete contenti”. Vane le mie spiegazioni sull’opportunità di arrivare prima dell’inizio dell’anno scolastico per consentire alle figlie, anche se costrette ancora una volta a cambiare scuola, di avere - almeno questa volta - un percorso di studi regolari. A dire il vero, spesso nei tre anni successivi, mi sono ricordato del saggio impiegato della Corte. In particolare le sue parole mi risuonavano nella memoria nel primo periodo del mio incarico di Console generale.

            Atterrato a Tripoli il 30 settembre, l’Ambasciatore Sacha Quaroni mi ha invitato la sera stessa a cena, offrendomi un’accoglienza calorosa, nel corso della quale ha accennato ai principali problemi che avrei dovuto affrontare. Fra l’altro, due italiani, impegnati in un cantiere in Cirenaica, erano spariti da qualche mese; il primo era il titolare dell’impresa edile che stava costruendo strutture militari, il secondo il suo braccio destro. Sequestrati dai comitati popolari? Arrestati da qualche milizia o da qualche polizia? Ultima e peggiore ipotesi, nelle carceri dei cosiddetti “caschi rossi”, la temutissima polizia segreta?

            Ho iniziato le ricerche rivolgendomi in prima istanza alla sezione consolare dell’ “Ufficio popolare per gli affari esteri”. Un gentilissimo direttore, con cui diventammo sinceri amici, pur nel rispetto dei rispettivi ruoli, mi disse di non essere al corrente della cosa. Dal tono capii che non poteva dirmi di più e che dovevo rivolgermi altrove.  Sono quindi passato al Procuratore generale per la difesa della rivoluzione. Personaggio potentissimo, con fare estremamente garbato nella forma, che mi ricordava il suo omologo greco ai tempi dei colonnelli, descritto con tanta precisione da Oriana Fallaci in “Un uomo”. Aveva studiato diritto in Italia, conosceva benissimo la nostra lingua e seguiva gli eventi politici romani con grande attenzione, divertendosi a punzecchiarmi, sapendo che non potevo replicare. Il prezzo di questo colloquio, come dei successivi, era una fortissima tensione nervosa, aumentata da un numero imprecisato di tè e di caffè, serviti con autoritaria cortesia. Anche lui mi ha dato una risposta evasiva, ma con l’assicurazione che non appena possibile mi avrebbe informato della situazione. Mesi dopo, il Procuratore stesso mi ha comunicato che i due italiani erano nelle prigioni dei caschi rossi, accusati di aver tentato di organizzare una rivolta contro il regime. Ha aggiunto che erano stati deferiti all’autorità giudiziaria e che si sarebbe svolto un regolare processo. Ebbi i brividi nel pensare cosa avevano subito nei mesi in cui erano stati affidati alle “cure” di quei militari e ancor più alla prospettiva di una condanna capitale. Mi sono limitato alle frasi di circostanza, chiedendo comunque di effettuare una visita consolare e la possibilità di un incontro con le rispettive famiglie. Iniziava così la seconda parte della loro odissea, nel corso della quale il titolare dell’impresa dichiarava con sempre maggiore insistenza (ma con scarsa credibilità) di sentire delle voci. Era palese a tutti il suo tentativo di accreditarsi come malato di mente, nel tentativo di ottenere qualche attenuante. L’altro, il geometra, mostrava grande dignità, facendomi capire nel corso dei nostri incontri di essere del tutto estraneo alle vicende.

            La questione si trascinava molto lentamente, volendo le autorità libiche mantenere vivo il caso, senza pervenire a sentenza, con la prospettiva di usare i due come “merce” per qualche baratto con i terroristi arrestati in Italia.

            Da pochi giorni a Roma per una breve vacanza natalizia, ho ricevuto la telefonato dell' Ambasciatore, suggerendomi di recarmi alla Farnesina per un aggiornamento sugli ultimi sviluppi. Era chiaro che era scoppiata una grana e che ero richiamato in sede con la massima urgenza. Al MAE appresi che i due erano stati condannati a morte e che la sentenza sarebbe stata eseguita dopo 30 giorni.
           
            Dai primi contatti da me avuti a Tripoli, mi fu chiarito il mistero di quel terremoto. Il Procuratore per la difesa della rivoluzione aveva compiuto 65 anni ed era andato in pensione. Profittando della situazione, il Procuratore militare si era impossessato del caso, aveva fatto prelevare i nostri due connazionali, deferendoli poi alla Corte marziale. Al termine di una breve udienza, i due imputati erano stati giudicati colpevoli di alto tradimento. Processo ”regolare”, visto che gli italiani erano stati difesi da un avvocato d’ufficio, che, come lui stesso ebbe a dirmi, aveva pronunciato una sintetica arringa, rimettendosi alla clemenza della Corte.

            Senza tema di esagerare, posso confessare di aver passato notti insonni al pensiero dell’imminente esecuzione. Il mio amico Direttore della sezione consolare si dichiarò subito del tutto impotente di fronte a simili sviluppi. L’avvocato d’ufficio, dopo complesse trattative realizzatesi per interposta persona, ha accettato di incontrarmi a mezzogiorno nella sala centrale del tribunale, volendo evitare accuse di contatti segreti con la controparte. Alla mia richiesta sulla possibilità di presentare ricorso, ha risposto affermativamente, sottolineando con enfasi che la Libia è uno Stato di diritto. Ha poi precisato gli aspetti procedurali per tale passo, informandomi che di fronte alla Corte marziale la difesa è nominata dal Presidente del Tribunale, prima del dibattito. In altri termini, ero in un maledetto circolo vizioso: il ricorso era ammissibile, ma non vi era avvocato che potesse presentare domanda, essendo il legale nominato all’inizio di ciascuna udienza, che però non poteva aver luogo se nessuno la poteva chiedere.

            Decisi di presentare io il ricorso, assumendo con procedura anomala la difesa giudiziaria dei due. Non credo che esista questa formula nel diritto consolare, ma nella Libia dell’epoca si poteva tentare. Con il riservato aiuto di qualche amico avvocato, ho preparato una richiesta di appello e l’ho inoltrata con nota verbale alla sezione consolare degli Esteri affinché fosse inoltrata alle competenti autorità giudiziarie. Giocavo così le due carte, quella legale e quella diplomatica, investendo il Ministero della materia. Il giorno dopo, però, il plico mi è tornato indietro, respinto. Per tre volte abbiamo fatto questo ping pong, mentre si avvicinava la data fatale. A questo punto, senza appuntamento, mi sono presentato nell’ufficio del Direttore: era urgente chiarire le rispettive posizioni. Un’azione di forza, dettata dalla comprensione da parte mia dei suoi timori, ma dalla mia convinzione che il metodo migliore per superarli fosse quello di incutergli una paura ancora più grande. Gli ho così esposto la mia tesi: siamo sicuri che le autorità supreme sono al corrente di quello che sta per succedere? Se lo scoprissero ad esecuzione avvenuta e non ne fossero soddisfatti, gli strali del Colonnello si abbatterebbero sul Ministro degli Affari Esteri e quelli di quest’ultimo su di te. In Italia succederà il finimondo, il mio Governo, che mantiene buone relazioni con il tuo, non potrà contenere le reazioni dell’opinione pubblica e del Parlamento. “Ti conviene – gli ho detto con fare confidenziale – un atteggiamento burocratico. Io ti mando la mia richiesta, tu la passi al Ministro e poi saprà lui cosa fare”. 

            Fra tante titubanze, alla fine fu accolto il mio suggerimento. Gli sviluppi successivi hanno riservato varie sorprese. Gheddafi, informato finalmente dell’improvvida iniziativa militare, ha sospeso il Procuratore della Corte marziale, ha ripristinato la situazione giuridica precedente e – relata refero – firmato un atto di nascita del non più pensionato Procuratore per la difesa della Rivoluzione, ringiovanendolo di 5 anni. Ripresi con lui i miei contatti per la tutela di qualche connazionale finito nelle maglie di quella “giustizia” come se nulla fosse accaduto e solo quando lo andai a salutare, al termine della mia missione, ebbe parole di calda stima.

            Dopo 7 anni i due sono rientrati in Italia, salvati da qualche meccanismo che non conosco, ma che possiamo immaginare.

            Tornato in Italia, il titolare miracolato e redivivo mi ha rintracciato alla Farnesina, chiedendomi di poter venire a salutarmi e ringraziarmi. Capita raramente, pensavo fra me e me, che i connazionali aiutati dal Consolato si ricordino di chi si è adoperato per loro. Ma il nostro incontro mi ha subito riportato alla realtà. Infatti, a parte una sintetica e formale espressione di gratitudine, mi ha chiesto un consiglio sull’azione da intraprendere contro il Governo libico per recuperare qualche credito dovuto (a suo dire, ma anche questo sembra fosse opinabile) alla sua società!