Memorie



Diario di viaggio alle Isole Falkland ed in Georgia del Sud
(15/1/2016 – 15/2/2016)

di Stefano Benazzo

 

Cercare l’anima e metterla in prospettiva” (Bernard Moitessier)

Si dice che i desideri non vadano realizzati, ma mantenuti allo stato di desideri. Questa è la storia di un desiderio durato 47 anni. Ho infatti vissuto il sogno che avevo da giovane, navigando a vela alle Isole Falkland e in Georgia del Sud, fra gli iceberg. Mi ci sono recato durante l’estate australe, per fotografare relitti spiaggiati.
Ho dato le dimissioni dalla Carriera diplomatica, in anticipo sul termine, alla fine del 2012. Da allora, vivo a Todi e sono Artista a tempo pieno: 14 mostre personali, partecipazione a numerose collettive, collaborazioni con riviste, ecc. Ho sei mostre in programma per il resto dell’anno, in Italia (spero anche al Circolo del Ministero degli Affari Esteri, esponendo immagini di relitti) e all’estero. Continuo ad essere fotografo e scultore. Quanto al modellismo navale ed architettonico, mi limito ad esporre i miei numerosi modelli: non ho più il tempo di lavorarci, e gli occhi si stancano.... E costruisco il mio immenso plastico ferroviario. Mi occupo attivamente di salvaguardia di locomotive a vapore e di ferrovie turistiche. Gestisco di persona il mio sito (www.stefanobenazzo.it). E ho ripreso una delle mie antiche passioni: la fotografia di relitti spiaggiati di navi e imbarcazioni. La Carriera non mi ha ovviamente lasciato il tempo di fare lunghi viaggi per mare. Ho quindi dovuto attendere di avere, nel contesto della preparazione delle mie mostre, il momento propizio. Che oltre tutto doveva essere nell’estate australe. E trovare me nella giusta condizione psicologica per affrontare con profitto (non solo dal punto di vista professionale) un’impresa del genere. Ironicamente, la Carriera non mi ha quasi mai portato a lavorare vicino al mare. L’Arte mi ha invece favorito. Ma, sicuramente, le mie esperienze professionali mi hanno aiutato ad avere la giusta prospettiva per organizzare il viaggio e per essere ciò che sono ora.
Fin dall’adolescenza mi sono avvicinato con riverenza e timore alle epopee di innumerevoli uomini e donne di mare . Ma anche ai racconti di tutte e tutti coloro che non navigarono solo alle basse latitudini, ma anche altrove, in solitario e non. Ho letto negli anni tutti i libri che potevo procurarmi sui tre Capi, sulla caccia alle balene australi, sui clippers, e su tutti coloro che avevano percorso rotte oltre i 50° Sud. Li ho riletti o scorsi prima di partire, così come la storia della Guerra delle Falkland del 1982 e le vicende di Ludwig Kohl-Larsen nella Georgia del Sud nel 1930. Più in particolare, mi sono accostato alle vicende connesse al passaggio del Capo Horn, alla navigazione nella parte più meridionale dell’America del Sud, alla storia della marineria a vela in quelle aree.
Come fotografo, i relitti emersi di navi e barche mi hanno attratto da sempre: ho cominciato a fotografarli in Patagonia nel 1969: le immagini analogiche scattate allora contribuiscono, scansionate, alle mie esposizioni attuali. Nel 2013 mi sono recato in Namibia. Cerco i relitti su Internet, costituendomi un ricco data-base. Contatto locali, amici, direttori di musei navali, ecc. Conseguenza logica di questo sogno: recarmi in Atlantico meridionale, prima percorrendo la costa argentina, poi quella cilena. Così ho fatto nel febbraio - marzo 2015, percorrendo in fuoristrada diverse migliaia di chilometri.
Ci sono tornato in barca a vela. E’ stato un tempo di sfida, di bilancio ed introspezione, un’esperienza dura ma esaltante, necessaria per riprendere il filo della mia rinascita spirituale. Tanto tempo libero in navigazione. Assenza di stimoli non essenziali, tipici della vita quotidiana a terra; per un mese, nessun telefono, nessun Internet, nessuna TV, nessuna radio. Un momento adeguato per approfondimenti. Un’istantanea della mia vita, ma facendo apparire i “livelli” successivi (per usare il linguaggio Photoshop) della foto scattata. Inoltre, volevo vivere, sia pure in condizioni ambientali e di imbarco privilegiate, le modalità della vita quotidiana dei naviganti dei secoli scorsi in quelle latitudini. Certo, su un ketch d’acciaio di venti metri, che era stato però definito da un amico che lo aveva visto poche settimane prima “un peschereccio”, quanto a comodità… Allo stesso modo, avevo a suo tempo preso il patentino per viaggiare nella cabina delle locomotive a vapore e vivere l’esperienza dei macchinisti, dei fuochisti e degli accudienti.
Come ho trovato quest’imbarco? Quando ho cominciato a cercare su Internet le possibilità di andare in Atlantico meridionale (scartando le navi da crociera) mi sono imbattuto nel nome Poncet. Ho scritto chiedendo se si trattava dello stesso Jerôme Poncet dei tempi di Damien, di cui avevo letto i tre libri scritti da Gérard Janichon. Mi ha risposto lo stesso Jerôme Poncet. Gli ho spiegato via mail perché tenevo molto a questo viaggio, e abbiamo fissato le date. Avevo esplorato un’altra ipotesi di viaggio, sullo yacht di Skip Novak, sudafricano con moglie italiana, amico di mio cugino Sandro Buzzi, che lo aveva a suo tempo aiutato a comprarsi la barca. Grazie a Sandro, Skip mi aveva fatto un prezzo di super favore, ma comunque più elevato rispetto a quello chiesto da Jerôme. Avevo quindi optato per la barca di quest’ultimo, il Golden Fleece, anche per motivi sentimentali, vista la lunga conoscenza che avevo delle sue vicende nautiche. Visitando il mio sito, Jerôme ebbe a dirmi che non sapeva se la Carriera aveva perso qualcosa dalle mie dimissioni anticipate, ma sicuramente l’Arte ci aveva guadagnato….
Un chiarimento geografico: le Isole Falkland sono approssimativamente a 52° Sud e 60° Ovest. La Georgia del Sud, anche essa britannica, a 54° Sud e 37° Ovest.
Il diario che segue è in parte pratico/logistico (per conservare nella mia memoria tutte le circostanze di un evento eccezionale), in parte contiene commenti/elucubrazioni/approfondimenti. Non ho omesso nulla di quanto avessi via via annotato sul bloc-notes che tenevo sempre a portata di mano.
Per meglio chiarire le motivazioni che mi hanno indotto ad affrontare questo viaggio, trascrivo il concetto della mia ricerca fotografica sui relitti (in sostanza, il testo che utilizzo in occasione delle mie mostre per spiegare al pubblico il senso delle mie immagini di relitti):

Le mie immagini (e le mie sculture) sono frammenti essenziali e scarni di realtà, di luoghi e di sogni che cristallizzano momenti e interpretano la natura, traducendo ciò che vedo e percepisco, ma soprattutto ciò che sento. Le mie parole chiave sono: passione, emozione, dovere di memoria; offro al pubblico e ai visitatori del mio sito gli strumenti per provare gli stessi sentimenti che mi pervadono quando creo, indirizzandoli verso l’essenza del soggetto.
La mia ricerca di immagini di relitti - nel contesto del progetto “Luoghi di Abbandono” - è ispirata dall’ambizione di mostrare simboli di coraggio, dolore e paura, e testimonia la mia compassione verso coloro che hanno vissuto quei momenti, lavorando, navigando, combattendo. I relitti - diventati parte della natura - sono in realtà dissonanti da essa: rappresentano la rottura di sequenze preordinate, e portano con sé la memoria di coloro che non figurano nei testi di storia. La mia ricerca vuole cristallizzare i resti di sontuose cattedrali (o di carrette) del mare, destinate a sicura decadenza. Mi metto al posto di coloro che hanno sofferto, e descrivo la loro paura. L’uomo è assente dalle mie foto, ma la sua presenza è costante.
I relitti sono un monumento ad alcune caratteristiche essenziali dell’uomo: ingegno, coraggio, iniziativa economica, spirito di avventura, e testimoniano la capacità degli architetti navali, dei cantieri, degli armatori, degli equipaggi. I relitti sono il simbolo di un elemento essenziale della storia economica, sociale, industriale e marittima del mondo. Navigare necesse est. Simboleggiano lo sviluppo dell’arte della navigazione inventata dagli egiziani e dai fenici e ricordano la sofferenza di innumerevoli famiglie di marinai. Sono testimoni delle vicende di emigranti e di migranti. Tuttavia, è impossibile (salvo poche eccezioni) esporli nei musei. Dobbiamo quindi almeno fissarne le immagini per le future generazioni, prima che siano irrimediabilmente distrutti dagli elementi, fra pochi decenni. Inoltre, i relitti si trovano in luoghi lontani ed inospitali, e cari da visitare. Ragione di più per fissarne la memoria. Anche i barconi che hanno portato i migranti sulle nostre coste sono testimonianze: ora spiaggiati e abbandonati, meritano rispetto; ho fotografato quelli di Lampedusa, per mantenerne la memoria, scattando immagini non giornalistiche.
La mia ricerca di relitti è iniziata nel 1969 in Patagonia, ed è stata arricchita con passione per decenni. Deriva da anni di agonismo a vela, dall’avere vissuto il pericolo in mare, dalla maturità raggiunta tramite l’esperienza, dalla consapevolezza del nostro debito verso i marinai di tutte le epoche e di tutti i Paesi, dal mio profondo rispetto nei loro confronti. E forse anche dalle mie parziali origini liguri.
Sono sempre stato colpito dalle foto delle barche e navi a vela scattate da alcuni grandi maestri della fotografia. Tuttavia, ho l’impressione di vedere un film incompleto: non ci si può limitare ad ammirarle quando sono possenti, competitive ed entusiasmanti, ignorandole nella loro vecchiaia e nella loro decadenza. Barche e navi non sono sempre eleganti, veloci e filanti: se non affondano o non vengono smantellate, vanno incontro ad una morte lenta e silenziosa. I relitti muoiono soli; raramente vengono assistiti, curati, rispettati: è quindi naturale dedicare loro attenzione, simpatia e rispetto.
La mia ricerca di immagini di relitti è intimamente collegata alle altre forme d’arte che pratico, oltre alla fotografia. La scultura: i relitti sono veri monumenti, isolati, sovrani e misteriosi nel limbo fra terra e mare. Il modellismo navale, che ho praticato fin dall’adolescenza. Il modellismo architettonico (principalmente luoghi di culto: chiese, moschee, sinagoghe): come i fedeli affidano le loro anime a entità superiori raccogliendosi nei luoghi di culto, i marinai affidano i loro corpi e i loro sogni alle navi. Del resto: “nave” e “navata” esprimono lo stesso concetto, rovesciato… In sintesi, le mie immagini di relitti simboleggiano l’artista e l’uomo.
Relitti sono ovunque. Intendo i relitti veri, cioè quelli abbandonati (non quelli in corso di smantellamento da parte dell’uomo). Dove li cerco? Luoghi di elezione sono la Patagonia (argentina e cilena), le isole dell’Atlantico meridionale, la Namibia, la Mauritania. Ma anche in Italia, in Grecia, in Turchia, alle Canarie, in Portogallo. Dovunque gli insediamenti umani siano abbastanza lontani da rendere impossibile il loro recupero e la vandalizzazione della loro struttura. E dove mancano capitali, strade, utilizzo commerciale del materiale di risulta. La ricerca continua…

Giovedì 14 gennaio 2016
Sveglia alle 6.00. Lasciato Audi TT in garage alle 8.00. Autobus della Sulga alle 8.40. Arrivo a Fiumicino alle 11.15. Fatto imballare in plastica verde il borsone rosso e lo zaino in un collo, la cartella nera portacarte e il treppiede senza la sua testa girevole nell’altro; pagato supplemento. 13.30 decollo per Londra. Arrivo a Londra alle 15.30 (guadagnato un’ora rispetto alle 16.30 italiane). Comprato in aeroporto obiettivo Tamron 70-300 mm. Check-in presso linea aerea TAM. Il mio posto non è definito; trattative per risolvere la questione. Imbarco regolare. Vedo il film The Martian da Londra a San Paolo. Non ho preso il volo militare diretto dall’Inghilterra (che fa sosta a Sant’Elena) perché costa (a coloro che non sono residenti alle Falkland) una cifra spropositata.

Venerdì 15 gennaio 2016
Sosta a San Paolo. Arrivo a Santiago del Chile alle 12.20 (16.20 in Italia). Ricerca dei miei due colli: essendo già taggate Stanley, erano al piano dei voli “interni”. Lo sapevo e quindi ho potuto orientare le ricerche. Holiday Inn in aeroporto. Ricca doccia. Telefonata da Di Benedetto (FIOF per mostra foto a Barletta). La mostra fotografica a Milano MIA 2016 (fine aprile-inizio maggio 2016) vuole da me il pagamento entro 15/1: rimandato a 16/2. Pranzo di ceviche in albergo. A letto alle 22.00.
Ero già venuto a Santiago nel 1969, sulla via dell’Isola di Pasqua. Ricordo la ricerca affannosa di pellicole per il viaggio: ero rimasto senza. Essendo domenica, le avevo elemosinate e ottenute nelle sedi di vari quotidiani locali. Allora viaggiavo da puzza-piedi. Ora Holiday Inn in aeroporto! Avrei voluto prendere stasera un pisco-sour in onore dei vecchi tempi, ma mi dà alla testa.

Sabato 16 gennaio 2016
Sveglio alle 4.00. Colazione alle 5.00. Incontro Franck Ravez, francese 45nne simpatico, imprenditore, ex falegname navale (coperte delle navi), che sarà uno dei passeggeri a bordo. Check-in in aeroporto. Incontro Nelly Meignié-Huber, francese 70nne sposata a un tedesco, amica d’infanzia di Jerôme Poncet, suo padre navigava con Jerôme; è residente a Monaco di Baviera, va spesso volontaria in Ecuador: sarà cuoca a bordo, è già stata alle Falkland due anni fa.
Decollo alle 8.10 per Punta Arenas. 11.00 Arrivo a Punta Arenas, dopo 47 anni. Cieli patagonici infiniti. Lunga trafila burocratica in aeroporto, tipica. 13.00 Port Stanley: aeroporto militare (circa 1.500-2.000 militari inglesi, di stanza qui in forze dopo la guerra del 1982). In aeroporto non si può ovviamente fotografare, ma neanche tenere gli occhiali scuri o un copricapo in testa: l’aeroporto è pieno di CCTV. Lunga coda per bagaglio e passaporti. All’inizio no autobus (era stato prenotato da Jerôme Poncet). Poi si materializza.
14.30 a bordo di Golden Fleece, ormeggiata all’East Jetty. Jerôme sembra un elefante marino. Dormirò in cabina con Franck. Io nella cuccetta bassa, vista l’età… Siamo nella cabina a prua sulla dritta, all’altezza dell’albero. Scoprirò come, con mare formato, la vita in cabina diventi come essere in un frullatore che gira all’interno di una lavabiancheria. Svuotati il borsone e altri colli, e infilato il vestiario nel mio armadietto.
A bordo saremo: lo skipper Jerôme Poncet; l’equipaggio: Nelly che gestirà la cambusa, Grégoire (il marinaio francese trentenne, capitano 200 miglia vela), Florence, fidanzata (teorica) di Grégoire e aiutante in cucina; passeggeri: Franck Ravez, Martin Collins (inglese 50nne, ex direttore della pesca per 6 anni per la Georgia del Sud, ex osservatore per 20 anni a bordo di pescherecci di varia nazionalità, praticante di maratone, biologo laureato in polipi, subacqueo, scapolo, attualmente con un incarico saltuario all’isola di Sant’Elena), Jeremy (inglese 50nne, ex poliziotto, residente per due anni a Stanley, sposato con una infermiera inglese, subacqueo), Diffith (gallese 30nne, specializzato nello studio dei muschi, residente per due anni a Stanley con una borsa di studio), e io.
Jerôme ha recentemente ricevuto dal governo inglese la Polar Medal. Gliela consegnerà fra breve la Regina Elisabetta II. E’ ora cittadino inglese. Parlando delle mie ricerche di relitti da fotografare, racconta di un relitto portato decenni fa da un’onda (anomala?) vari metri sopra il livello del mare, e da allora sugli scogli, in un’isola all’estremo ovest delle Falkland. Jerôme cucina con le due donne un arrosto di montone: nella sua isola (Beaver, a 200 miglia da Stanley), ha 200 pecore e renne.
E’ separato da dieci anni da sua moglie Sally, biologa australiana che continua a lavorare alle Falkland. Hanno 3 figli. Il maggiore, Dion, circa 35 anni, nato in barca in una baia sperduta della Georgia con suo padre come levatrice, è skipper di una motobarca (lo Hans Hanson: assistenza ai pescherecci e salvataggio, originariamente norvegese, vecchia di 50 anni, ha salvato più di 250 persone nella sua carriera nei Mari del Nord) con 9 cabine per 12 passeggeri e 4 uomini di equipaggio.
Spiegazione (piuttosto schematica e poco formale, a dire il vero) da parte di Jerôme dei dettagli pratici della vita a bordo, delle dotazioni di sicurezza (giubbetti, gommoni di salvataggio, tute stagne per emergenza, radio, imbragature di sicurezza, ecc.).
A letto presto.

Domenica 17 gennaio 2016
Dormito bene. Svegliato alle 3.00 circa, come di consueto. Ridormito, con cera e paraocchi. Il paraocchi è indispensabile perché il grande boccaporto Goïot trasparente in coperta (sigillato, vista la latitudine, come del resto tutti gli oblò e i boccaporti della barca) è direttamente sopra la mia cuccetta e non ha oscuramento. Franck russa e quindi la cera è indispensabile. Ho freddo alla testa: la manica a vento arriva sopra alla testata delle nostre due cuccette. Urge berretto da notte.
Le uniche aperture della barca sull’esterno (a parte due boccaporti “tecnici” a prua e poppa, che danno peraltro su locali isolati da paratie stagne con porte d’acciaio, le prese a mare, gli scarichi dell’acqua bianca e nera, e del motore) sono le tre porte (in acciaio e vetro corazzato) che dalla tuga danno sulla coperta, a dritta, a sinistra e verso poppa.
Tutte le cabine mantengono per tradizione, a bordo di Golden Fleece, per migliorare l’aerazione e il riscaldamento, le porte sempre aperte. Il nostro bagno (spartito con Jerôme e Nelly, che dormono nella cuccetta matrimoniale nella cabina accanto) è accanto alla nostra cabina: doccia, lavandino e gabinetto, da pompare 15 volte per qualunque tipo di utilizzo. E’ ovviamente rigorosamente proibito fare pipì in piedi (per non schizzare): diversi disegni umoristici raffiguranti delle renne spiegano come fare. Nella nostra cabina, la salita in cuccetta è abbastanza semplice per me; più complessa per Franck a causa del mio asse anti rollio. Nel mio caso, per uscire dalla cuccetta, devo buttare le gambe sopra l’asse (alto 30 cm) ed estrarmi. Lui deve posare un piede sul mio asse e issarsi in cuccetta: con mare formato, guai per lui a sbagliare il colpo. E la sua discesa - soprattutto con barca inclinata - è ancora più aleatoria.
Come è fatta la cuccetta? Lunga 2 metri, larga 80, alta 80, con asse anti rollio. Piedi verso prua, materasso duro, coperta imbottita (couette) calda, 2 cuscini non buoni di cui uno da me ricoperto con una federa anti acari. Dormo con calze di lana e pantaloni tuta; se fa caldo T-shirt, sennò collo alto; berretto di lana contro gli spifferi, paraluce sugli occhi, cera nelle orecchie. Sopra al letto, ad una traversa in legno ho attaccato: la lampada frontale, un orologio normale, l’orologio/barometro/bussola/termometro.
In quadrato, due tavoli fissi, per complessive circa 12 persone. In tuga/timoneria (completamente vetrata), una panca, un tavolo, e tutti i nostri stivali (o rispettivamente chaussons o scarpe) disposti in modo da seccare/non intralciare. Sempre in tuga, sono appese le incerate.
Prima colazione individuale. Ciascuno si lava quindi il piatto e la tazza. Nescafé e due fette di pane (fatto a bordo regolarmente) abbrustolito sul piano della cucina (a gasolio, per evitare il cardano e il rischio che il tubo del gas si rompa, alla lunga). Siamo in attesa di fare dogana per partire. Tutti cominciano a fare conoscenza. Si parla a bordo francese e inglese. Jerôme parla inglese con fortissimo accento. Dò a Jerôme il libro su Nave Vespucci da parte di Riccardo Sassoli, che lo aveva visto un mese prima alle Falkland. Siamo ormeggiati vicino ad un relitto molto mal conciato (l’Egeria); lo fotograferò al nostro ritorno. Alle Falkland, hanno la pessima abitudine di incorporare relitti di navi nei moli in costruzione. Maledizione !!! Brutta sorpresa (ma lo sapevo già prima di venire) per chi vuole fotografare relitti di navi!
Ore 11.40 partenza per la Georgia del Sud. Da fare: 735 miglia fino all’estremità nord. 820 miglia fino a Grytviken. Previsti 4 giorni di navigazione. Pioviggina. Ore 16.00 nausea forte. Non vomito. Mi trascino in cuccetta con bacinella, ad ogni buon fine….

Lunedì 18 gennaio 2016
Appena cerco di alzarmi mi viene nausea. Compiti immediati impressi in mente e da eseguire nonostante la nausea: prendere dall’armadietto i chaussons, le medicine, il berretto per la notte. Imparare ad andare in bagno al buio è un incubo. Alle 16.00 provo ad alzarmi, ma devo tornare subito in cuccetta. La bacinella di emergenza è ai miei piedi, in cuccetta, pronta ad essere usata. La mattina lotta epica per evacuare la tazza del gabinetto: si scoprirà poi che era sulla via dell’otturamento (dovuto al calcare accumulato nel tempo) … Andiamo a 8 nodi a sola vela. La notte scorsa abbiamo avuto 35 nodi, per fortuna al traverso. Anche Franck è in cuccetta malato. Nelly mi porta 3+4 biscotti e una mezza fetta di pane tostato. Siamo diretti verso le Shagg Rocks, primo avamposto della Georgia. Che fanno tutti a bordo? Jerôme ha anche lui un po’ di nausea ma la vince (naviga da queste parti da 47 anni) e porta la barca (pilota automatico, naturalmente); fa i turni con il marinaio Grégoire, Nelly in cucina aiutata da Florence; Franck sta male; i tre inglesi stanno per i fatti loro, prevalentemente in cuccetta… Tutti cercano di fare fronte alla nausea a modo loro. Io prendo una pastiglia di Xamamina.

Martedì 19 gennaio 2016
Finora 40 ore in cuccetta. Mi manca caffè e cibo. Sono piuttosto debole. Vela e motore, 8-9 nodi. Dormo o sono assopito circa 20 ore al giorno. Non sapevo che la Xamamina desse incubi…
Incubo notturno: lavoro al Ministero Affari Esteri, sono fuori dall’edificio, piove, cado e mi strappo i pantaloni malamente; tentativo di arrivare al Comando Carabinieri per fare una denuncia sullo stato deplorevole del selciato; non mi lasciano entrare, essendo fradicio e in mutande e senza documenti….
Da 30 ore non ho avuto la forza (né la voglia, né tanto meno ho sentito l’esigenza) di togliermi i jeans con cui sono partito, e di mettermi i pantaloni della tuta. Collo alto beige da sabato 16!
Evviva: alle 05.00 mi alzo. Nescafé doppio, con pane e marmellata, in quadrato. Cerco di bere acqua per non disidratarmi. Torno poi in cuccetta. Gli altri dormono. Da 48 ore in cuccetta. Mangiucchiato. Bevo spesso.
Nel pomeriggio: passaggio Convergenza Antartica. A circa 54° latitudine S il Fronte Polare delle acque fredde del Sud incontra quelle calde del Nord: cambiano i venti, le correnti e la salinità.
Quaranta Ruggenti       = Quarantièmes Rugissants = Roaring Forties
Cinquanta Ululanti       = Cinquantièmes Hurlants   = Furious Fifties
Sono stato 45 minuti nel quadrato: la Xamamina funziona! Nevica. Acqua a 3°. In quadrato dalle 16.15 alle 19.20. Mangiato, per la prima volta dopo 48 ore: purée di patate; rifiutato minestra. Eroico cucinare in queste condizioni, senza sospensione cardanica… Sui tavoli del quadrato i piatti e i bicchieri vengo posati su un materiale granuloso che li trattiene nonostante il rollio. Gli altri posano su questo materiale anche i pc. Tutti vi posiamo le macchine fotografiche, e niente cade. Ieri onde di 4 m e 32-35 nodi. Oggi delfini clessidra ci accompagnano.

Mercoledì 20 gennaio 2016
Dormito dalle 19.20 di ieri alle 00.20 e dalle 00.20 alle 05.15: 10 ore! Oggi passati a GMT: + 3 ore. Tutto il giorno sono stato in quadrato, in tuga (timoneria), in coperta. Vestirsi per uscire è sempre un’impresa: oltre a T-shirt, giacca della tuta non tecnica, mutandoni tecnici e ai jeans, infilo: maglione in pile, giubbetto piumino, panni d’acqua, stivali, guanti di lana a dita rimuovibili o da barca a vela impermeabili alti fino a sopra il polso, berretto; inoltre, quattro macchine fotografiche da preparare; se brutto tempo solo Olympus. Essenziale ricordarmi di avere sempre le batterie delle macchine cariche.
A mezzogiorno mangiamo quiche lorraine e insalata dell’orto del Governatore delle Falkland, coltivata e raccolta dal terzo figlio di Jerôme, che lavora lì come giardiniere.
Ore 16.00 primo iceberg. Ne facciamo il giro a 5 miglia. Pinguini manchots.
Poi Shagg Rocks in mezzo al nulla, 136 miglia a nord ovest della Georgia del Sud. Jerôme vi passa in mezzo, quando non vi è risacca. Petrels e forte puzza di guano. Qualche anno fa gli argentini sono atterrati in elicottero sui Shagg Rocks ma non hanno voluto rivendicarne il possesso in base al Diritto Internazionale, in quanto è impossibile stabilirvi una presenza umana. Mentre giriamo intorno ai Shagg Rocks, due balene ci gironzolano intorno, ci mostrano la pancia, si mettono su un fianco e ci guardano a lungo. E’ inutile cercare di “umanizzare” i comportamenti di bestie che, come le balene, non sono a contatto con l’uomo.
Alle 18.00 riprendiamo la rotta. Le balene ci seguono per un po’. Temperatura: 2°. 20 nodi di vento. Tutti fotografano senza sosta. Emozionante vedere le balene e leggere nella Bibbia il passo che recita: “Dio creò i grandi mostri marini” (Genesi, quarto giorno).
Jerôme ci facilita al massimo nel nostro desiderio di vedere vita animale, fauna e fotografare relitti. Ha visto il suo primo iceberg a 21 anni, allo Spitzberg, con Gérard Janichon (vedi libri Damien). Chiacchieriamo delle crescenti difficoltà burocratiche stabilite dagli inglesi in Georgia del Sud: 200 metri di zona di interdizione intorno alle aree costruite (a causa del pericolo dell’amianto usato per la costruzione di baracche e impianti industriali), divieto di accesso alle zone popolate dalla fauna o dove la flora è particolarmente a rischio. Inoltre, praticamente tutta la costa sud-occidentale della Georgia del Sud. Sono sempre più rigidi nei controlli effettuati con i radar (vedono se una nave o una barca si reca nella baia proibita e a che distanza è rispetto alla zona interdetta). E quindi ritirano il permesso di accesso alla nave o alla barca che disobbedisce.
Facciamo con Jerôme dei piani d’azione per vedere, fra l’altro, i relitti delle navi Brutus, Karakatta, Bayard e le eliche abbandonate a Stromness .
Perché voglio fotografare dei relitti? E perché sono venuto fino alle Falkland ed alla Georgia del Sud per fotografarli? Ecco il testo dell’articolo sui relitti che ho proposto alla rivista Arte Navale per il numero di aprile/maggio 2016, che spiega il mio obiettivo.

Titolo proposto: Luoghi di Abbandono; Sottotitolo proposto: Archeologia Marittima
Ho vissuto il sogno che avevo da 47 anni, navigando a vela alle Isole Falkland e in Georgia del Sud, fra gli iceberg. Ci sono andato durante l’estate australe, per fotografare relitti spiaggiati. L’Atlantico meridionale è infatti uno dei pochi posti al mondo (oltre alla Patagonia ed in Namibia: vedi mio articolo su Arte Navale n. 88) dove trovare relitti del secolo scorso. Come noto - se si escludono alcune concentrazioni di relitti “artificiali” - come la baia di Nouadhibou, in Mauritania -, i relitti causati da errori politici - il Mare di Aral, per intenderci -, o gli scafi in acciaio in corso di smantellamento (in India, Pakistan, ecc.) - i relitti spiaggiati sono numerosi solo dove sono in pratica inesistenti insediamenti umani, capitali, strade e utilizzo commerciale del materiale di risulta.
La mia ricerca di immagini di relitti (fin dal 1969) è ispirata dall’ambizione di mostrare simboli di coraggio, dolore e paura, e testimonia la mia compassione verso coloro che hanno vissuto quei momenti, lavorando, navigando, combattendo, e verso le loro famiglie.
I naufragi in Atlantico meridionale sono dovuti all’inevitabile passaggio per secoli del naviglio commerciale da Capo Horn, fino all’apertura del Canale di Panama. La quasi esclusiva prevalenza dei venti da ovest spingeva le navi, in difficoltà dopo il passaggio del Capo, verso est, cioè verso la vicina Isola degli Stati, le Falkland (a 300 miglia da Capo Horn) e la Georgia del Sud (a 900 miglia dalle Falkland e a 1.270 miglia dal Capo Horn). Del resto, le carte nautiche “adattate” delle isole dell’area mostrano i simboli dei velieri che vi si sono persi. Si contano almeno 40 naufragi accertati nell’Isola degli Stati, 170 alle Falkland e almeno 60 in Georgia, senza contare le centinaia di navi perse senza lasciare traccia. A titolo indicativo, di circa di 50 navi dirette al Capo Horn nell’anno 1905, non si seppe più nulla.
Quelle che non affondavano subito prendevano terra su quelle isole, rimanendo spiaggiate o per fare riparazioni, ma le tariffe praticate dagli isolani delle Falkland - le uniche isole abitate nell’area, allora come oggi: circa 2.000 abitanti – erano così esose da indurre molti armatori a rinunciare alle riparazioni ed a abbandonare le loro navi.
Inoltre, la Georgia è stato il centro, dall’inizio del 900’ al 1965 circa, della pesca australe alla balena e della caccia alle foche, entrambi praticate soprattutto dai norvegesi; da tale attività risultò, a causa dell’elevato numero di navi coinvolte, un certo numero di naufragi. Rimasero alcuni relitti spiaggiati e diverse navi abbandonate, dopo essere state utilizzate come depositi di materiale e di prodotti derivati dalle balene, come carboniere o come produttrici di vapore per le stazioni baleniere. Infine, sussistono numerose scialuppe o imbarcazioni minori di servizio, nonché, lungo le coste, tanti resti di relitti.
Alle Falkland, i relitti emersi sono concentrati nella baia che include Port Stanley, sede del Governatorato, e in poche altre isole, mentre in Georgia i relitti interi sono spiaggiati soprattutto nei dintorni delle stazioni baleniere. Vi sono peraltro casi estremi, come il relitto di un tre alberi sbattuto sugli scogli decenni fa da un’onda anomala (o forse solo da una burrasca) vari metri sopra al livello del mare, ben distante dalla linea dell’alta marea. Un buon esempio di come il mare si prende gioco delle creazioni umane è rappresentato del resto dal recente casuale rinvenimento, sulla costa cilena a 300 metri dal mare dopo aver fatto più di 10.000 miglia, dei resti dell’Imoca 60 Hugo Boss abbandonato nel 2006 da Alex Thomson a est di Cape Town nel corso di una regata in solitario intorno al mondo. E la valenza storica di queste vicende è testimoniata dal fatto che le Falkland e la Georgia hanno prodotto numerose serie di francobolli di grande bellezza che raffigurano relitti.
Le riprese fotografiche di relitti in Atlantico meridionale, anche in estate, sono rese difficili dal vento perenne (fino a 90 nodi durante il mio periplo), dal freddo, dalla aleatorietà delle condizioni di meteo e di luce. Alle Falkland, i campi minati sulle spiagge rimasti dopo la guerra del 1982 costituiscono un ulteriore rischio. In Georgia, la situazione è resa più ardua dalla normativa inglese che vieta di salire sui relitti e di avvicinarsi a meno di 200 metri dalle stazioni baleniere (nelle cui vicinanze sono spesso arenati i relitti) a causa dell’amianto che permea le strutture e dei rischi di crolli delle stesse. E le foche, sempre curiose, importunano i bipedi.
Quanto ai relitti sommersi, quelli di cui è nota la presenza a ridosso delle coste sono talmente mal ridotti, spezzati e invasi dalla vita sottomarina da non poter essere fotografati. Per quanto concerne le navi affondate durante la battaglia navale delle Falkland del 1914 e durante la guerra anglo-argentina del 1982, esse giacciono in profondità, salvo un solitario mezzo da sbarco argentino, dipinto curiosamente di rosso e spiaggiato di fronte a King Edward Point in Georgia.
I relitti che ho privilegiato in questo riverente omaggio ai navigatori del passato sono quelli che mi hanno dato un brivido misterioso, quelli che hanno suscitato in me l’emozione di rivivere le ore difficili o fatali delle donne e degli uomini che erano a bordo. Lo stesso omaggio che ho percepito nei cimiteri della Georgia, a testimonianza della morte di tanti balenieri norvegesi e di numerosi naviganti ed esploratori, come Shackleton. O la chiesa di Grytviken costruita nel 1913, che geme sotto i colpi di vento nonostante sia controventata con cavi d’acciaio da 20 mm, e che contiene le lapidi di tanti scomparsi in mare nella zona; un avviso invita i visitatori a suonare la campana in memoria dei caduti. Ho cercato di restituire l’emozione che ho provato nei “Cinquanta Ululanti”, offrendola a chi non ha potuto finora vedere le testimonianze, grandiose o umili che siano, di un’era scomparsa ma gloriosa. E sono consapevole che i relitti che ho fotografato ieri, condannati ad una morte lenta ma sicura, non saranno più gli stessi fra alcuni anni, e non esisteranno più fra 20-30 anni, così come le strutture delle stazioni baleniere che cederanno alla ruggine e al vento.

Per l’aperitivo, peschiamo ghiaccio proveniente da un ghiacciaio dell’Antartico.
La sera mangiamo lasagne (in mio onore) precucinate (bene) a Stanley, e insalata. Le lasagne erano scivolate fuori dal forno con un colpo di rollio. Espressioni pittoresche della cuoca. Per fortuna la teglia si è fermata inclinata contro la paratia di fronte al forno e non si è rovesciata.  Non si beve alcol in navigazione.  Ore 21.00 a letto, dopo essermi lavato un po’. Mi chiamano fuori perché abbiamo a prua dei magnifici iceberg. Riesco dalla barca brevemente senza tuta pesante e scatto. Sono veramente bellissimi. Giornata emozionante: meritava aspettare 47 anni.
Chiacchiere a bordo. Jerry, poliziotto inglese a riposo, è stato 6 anni in Germania; accompagnava il trasporto di carri armati; vi era la proibizione agli equipaggi di mettere la testa fuori dalla torretta, a causa dei ponti troppo bassi; capitava però che qualcuno mettesse fuori la testa…. Di notte, vi era la proibizione di dormire sotto i carri armati, perché nel fango i carri sprofondavano e li schiacciavano. Ma capitava anche questo.

Giovedì 21 gennaio 2016
Ore 02.00: fatto sogni e incubi, evidentemente anche essi per colpa della Xamamina.
Sveglio alle 06.00. Comincio a lavorare all’articolo su Jerome per Arte Navale.
Terra!!!!!
La Georgia del Sud è a 850 miglia (1.450 km) da Port Stanley (Isole Falkland), a 2.050 km da Capo Horn, a 4.800 km dal Capo di Buona Speranza (Sud Africa).
Dalle 12.00 alle 15.00 ci trasferiamo da Willis Island a Bird Island (stazione di osservazione della fauna, dove è proibito attraccare e sbarcare), entrando e uscendo da ogni baia. Ci incagliamo consapevolmente sulla sabbia in acqua calmissima in una baietta. La marea risale dopo 30 minuti e ripartiamo in mare aperto.
Alle 16.00 andiamo a terra in un’altra baia (con lo Zodiac munito di fuoribordo); spiaggia con pinguini reali, otarie, elefanti marini, petrels giganti. Le andate a terra sono complesse. Oltre al vestiario, devo pensare a 4 macchine (2 Nikon, una Hasselblad, 1 Olympus) impacchettate nella borsa arancione a tracolla che ho da 30 anni, il tutto inserito in uno zaino di cui chiudo ermeticamente la bocca. Lo zaino non è stagno al 100% ma almeno, oltre a riparare dagli spruzzi, garantisce un minimo di tenuta. Inoltre, il treppiede Manfrotto ripiegato. La discesa da Golden Fleece allo Zodiac è complessa e spesso difficoltosa se c’è mare: discesa dalla coperta su un gradino appeso fuori bordo, atterraggio sullo Zodiac, sistemazione sui galleggianti con gli altri passeggeri.
Andiamo tutti a fare una passeggiata nel tussock, erba locale alta circa 70 cm, che ha la particolarità di crescere spesso in cima a scivolosissimi montarozzi di terra alti circa 50 cm. Il tussock è prediletto dalle foche e dagli elefanti marini, che si nascondono negli avvallamenti fra i montarozzi. Così si rischia: a) di cadere dai montarozzi negli avvallamenti (che sono in pratica dei camminamenti, come le trincee della prima guerra mondiale, ma a misura di foca) rompendosi qualcosa (evento molto possibile soprattutto per chi come me calza stivali da barca con fondo in gomma liscia, appena zigrinata pert fare presa sulla coperta), b) di andare a sbattere contro foche o elefanti marini arrabbiati per essere state disturbati, e che hanno la pessima abitudine di mordere prima e fare domande dopo; perciò andiamo tutti in giro con bastoni in legno o bastoni da sci, per fare paura a foche e elefanti (non c’è bisogno di toccarli: basta agitare il bastone davanti al loro muso, o al massimo sfiorargli i baffi). Aggiungo che raramente il tussock è in piano: di solito è in salita dalla spiaggia, e ci si aiuta con il bastone. Dappertutto, nel tussock, fango e escrementi di foche, pinguini e elefanti marini. Che incubo!
Rinuncio a fare la passeggiata che fanno gli altri perché troppo pericoloso e torno alla spiaggia ad aspettare vicino allo Zodiac, come i vecchietti. Sacrosanta prudenza. Tante piccole foche vengono a curiosare intorno a me. Ne approfitto per lavare gli stivali e i pantaloni dell’incerata, che puzzano di escrementi: gli cammino sopra tenendoli nell’acqua di mare, poi li metto ad asciugare sullo Zodiac.
Ci trasferiamo a Elsehul per dormire. Freddo: 3° – 5°.

Venerdì 22 gennaio 2016
Sveglio alle 7.00. Trasferimento da Elsehul a Right Whale Bay, al fondo di Ernesto Pass. Mangiato salsiccia e lenticchie. Diarrea improvvisa e devastante. Preso Imodium.
Alle 14.00 con Zodiac sulla spiaggia. Tante foto: pinguini, elefanti marini, skua; scheletro di una balena con il suo balenottero accanto: ossa disseminate. Stiamo a terra 3 ore, sparsi. Esperienza unica: totale solitudine. I fiumi che scendono dai ghiacciai e attraversando la spiaggia sono guadabili, ma bisogna stare attenti alle buche più profonde, e respingere i pinguini che stanno lungo le rive con i piedi nell’acqua: ora è periodo di muta, la temperatura del corpo dei pinguini si alza, e tengono i piedi a mollo per raffreddarsi. Guadando un fiume mi entra acqua in uno stivale: sgradevole… I giovani maschi di foca si avvicinano, offesi che qualcuno calpesti il loro territorio e preoccupati di non sembrare all’altezza nel difenderlo. Li respingo battendo un bastone da sci contro il treppiede smontato. Scatto quasi tutte le foto con il treppiede: c’è troppo vento per lavorare a mano libera. Ci chiamano con walkie-talkie per tornare allo Zodiac.
Domani sera previsto vento da Sud a 50 nodi.
Franck, Martin e Jerry si tuffano senza bombole in mezzo ai piccoli delle foche.
Ore 19.00: partiamo verso Rosita Bay. Contiamo arrivare verso le 21.00. Vediamo una balena che salta ripetutamente, evento non frequente. Passiamo da Welcome Islets, in un’area che Jerôme è probabilmente l’unico a saper percorrere. Vediamo il (famoso) buco nella roccia, frutto dell’erosione. Lungo la costa, ci avviciniamo ai pinguini Macaroni (perché hanno in testa un ciuffo giallo come i giovanotti “bene” della Londra di tanto tempo fa); le alghe di kelp (lunghe fino a 40 metri, dal diametro anche fino a 6 cm) oscillano con le onde e la risacca.
Cena con arrosto di renna, crauti, patate, torta di mele calda. Lunga chiacchierata con Jerôme e Martin sui problemi creati dal British Antarctic Survey. Incredibile tramonto di fuoco. A letto a mezzanotte. Mal di schiena, fra le scapole. Devo aver preso freddo. Inoltre, la mia attrezzatura pesa. Sono però contento delle mie foto: spero restituiscano l’emozione che ho provato.

Sabato 23 gennaio 2016
Decimo giorno del mio viaggio.
Partenza alle 5.30. Ormeggiamo a Albatros Inlet (Bay of Isles) per vedere nidi di albatros giganti. L’albatros può raggiungere 2,50 metri di apertura alare e volare per migliaia di chilometri. Rimango solo a bordo: non ho voglia di ripetere l’esperienza orrenda dell’altro ieri. Sono anche intelligentemente pigro e ho male alle cosce. Tempo grigio e coperto, senza sole. Temperatura 3°. Ma la sensazione provata rimanendo solo a bordo, sia pure ormeggiati e senza vento, è impagabile.
Ripartiamo per arrivare verso le 10.00 a Salisbury Plains, immensa spiaggia con circa 100.000 pinguini reali, oltre alle foche. Piove. Non c’è vento, per fortuna.
Andiamo a terra. Tanta risacca: imbarco e sbarco aleatori e rischiosi. Passeggio per due ore al limite fra il tussock (impraticabile perché scivoloso, puzzolente e pieno di elefanti marini che fanno finta di dormire e di foche arrabbiate) e la zona dei pinguini, molti dei quali stanno covando: l’uovo è in una piega di pelle, posato sui loro piedi palmati. E’ proibito dalla normativa vigente, intesa a proteggere l’ambiente, avvicinarsi a loro a meno di 5 metri. E’ infatti essenziale non disturbare i pinguini che covano: maschi o femmine, a turno, quando il coniuge va a pesca, stando via anche per 25 giorni. In sostanza, non devono avere paura dell’intruso ed essere indotti a spostarsi troppo velocemente e disordinatamente, perché così l’uovo rischia di rompersi. Devono limitarsi a muoversi con piccoli passi laterali, per non far cadere l’uovo. In ogni covata di pinguini ci sono due uova. Il primo viene sempre ignorato dalla madre, e quindi si perde: che spreco. Chi sa perché succede? La puzza tutt’intorno è forte: escrementi di foche, elefanti, pinguini, cadaveri più o meno decomposti di uccelli, foche e pinguini. Tantissimi piccoli pinguini morti.
Alle 12.30 minestra e spaghetti con ragù e formaggio. Lunga conversazione con Jerôme e gli inglesi sullo stato di conservazione delle stazioni baleniere, nonché le depredazioni e le distruzioni fatte da militari inglesi e gli equipaggi russi e polacchi, rispettivamente dopo il 1982 e dopo il 1965. Per qualche anno, infatti, le stazioni erano pienissime di materiale. Jerome si è servito abbondantemente: materiale da costruzione trasportato a Beaver Island per costruirsi casa, viveri, materiale di rispetto, ecc. Nel 1991 fu fatta la prima pulizia dall’amianto, con spese altissime ma con risultati finali incerti.
Alle 14.00 partiamo verso Prince Olav Harbour, dove è il relitto della nave Brutus.
In pomeriggio fotografo Brutus dallo Zodiac sotto la pioggia. Il limite consentito è di 200 metri, ma ci avviciniamo a 50 metri. Apparecchi bagnati: li tengo sotto la giacca d’incerata. Asciugati con cura al ritorno a bordo. Peccato che il tempo sia inclemente per il mio primo relitto della Georgia. La Brutus è bella: meritava di più, dal punto di vista fotografico….
Viene a trovarci a bordo Philip, neozelandese 55nne, che da 30 anni (“si sta cercando”) è in giro in barca (Winderella, 12 metri) nell’emisfero sud con la moglie, e che è anche lui in rada. A bordo hanno anche un amico. La coppia ha due figli grandi in Nuova Zelanda. Stanno lasciando la Georgia per andare in Namibia qualche mese. Lui ha un fratello in Sud Africa, che gli presterà un fuoristrada. La coppia chiama i figli una volta al mese. Non ha carte meteo elettroniche a bordo, e quindi chiama ogni tanto via Iridium un suo amico pescatore in Nuova Zelanda e si fa indicare i trends della meteo locale. Un altro suo amico neozelandese paga il conto dell’Iridium. La moglie di Philip non si lava i capelli da tre anni. Sostiene che dopo qualche mese non vi è più produzione di sebo, e quindi i capelli sono puliti! Incontri di quotidiana follia marina.... I nostri tre subacquei fanno un’immersione: l’acqua è a 3°. Philip non vuole più andare via, e quindi ci alterniamo per tenergli compagnia in tuga, bevendo birre.
A cena calamari, riso, broccoli, torta con panna montata.
Lunga conversazione a due con Jerôme sulle nostre rispettive vite; da parte sua: suo periodo come skipper di Guia (di Giorgio Falck) in numerose regate transatlantiche e intorno al mondo, suo naufragio in Atlantico su Guia a causa dell’orca che li ha speronati, marinaio (di Falck) Jepson (“furbetto del quartierino”), difficile telefonata di Jerôme a Falck per dirgli che la sua barca era affondata…, sue vicissitudini in Sud Africa per sue disavventure giudiziarie…, racconti su alcuni suoi clienti: famiglia di ebrei non osservanti, Salgado, troupes televisive, alcuni screanzati, altri che sanno tutto di tutto, ecc.; utilità per i suoi figli derivante dall’avere incontrato tanta gente strana; gli illustro, a proposito dell’approccio degli inglesi in Georgia del Sud, il concetto del “summum jus summa injuria”, che lo interessa molto.
La sera vediamo tutti tre corto metraggi in bianco e nero sulla vita dei balenieri norvegesi dal 1930 al 1960 circa.
Quali sono le caratteristiche necessarie e sufficienti per vivere a bordo in nove, senza conoscersi prima, e con provenienze del tutto diverse, in 20 metri per 30 giorni con due bagni? Sicuramente il rispetto reciproco, l’apertura mentale, la passione per un viaggio del genere nonostante queste condizioni, un’inveterata ammirevole abitudine (soprattutto anglosassone) a non immischiarsi in ciò che non li riguarda, ecc.
Spengo alle 22.30. Vento a 35 nodi. Si aspetta che arrivi a 40 nodi almeno. Siamo in una baia defilata; 20 metri di fondo e 75 metri di catena grossa.

Domenica 24 gennaio 2016
Notte ventosa: 25 nodi. Dormito male: tre volte al bagno. Ogni volta, macchinosa procedura di estrazione dalla cuccetta, recarmi in bagno al buio, 15 pompate, rientro al buio senza più vedere nulla perché gli occhi si sono assuefatti alla luce e non al buio.
Sveglio alle 8.30. 40 nodi con raffiche a 70 nodi. E’ singolare come l’organismo si abitua! Dormivo senza fare una piega, con questo vento. Mai avrei pensato che si può tranquillamente dormire con 110 km/ora di vento. Ci spostiamo alle 9.30 per trovare un ormeggio più calmo. Vi sono già altre due barche a vela. Una del neozelandese di ieri, l’altra di un tedesco che ha dovuto mettere una seconda ancora ed ha il dinghy attaccato a poppa rovesciato dal vento (senza il motore). Difficile trovare un ancoraggio con raffiche a 70 nodi. Tanto kelp. Sotto raffica Golden Fleece si inchina tanto che mette la falchetta in acqua… e sì che siamo alti….
Rimaniamo sempre a più di 200 metri dalla stazione baleniera e da Brutus. Colazione all’ancora con minestra, insalata di riso, carne secca. Non piove ma ancora raffiche a 40-50 nodi. Barometro sta però salendo. Peccato non potermi avvicinare a Brutus. Pomeriggio e notte all’ancora. Vento fisso a 25-30 nodi. Stasera compleanno d Florence: caipirinha, fonduta bourguignonne di renna, gratin, insalata, marquise au chocolat con cacao del 1955 “preso in prestito” decenni fa da Jerôme in una stazione baleniera. Florence riceve tre denti intagliati di orca.
Oggi tutti doccia. Difficoltà di sapere gestire tutti i propri averi (e le macchine foto) in due armadietti e due ripiani, trovando tutto anche al buio o nella penombra o con barca inclinata. Oggi scritto prima versione dell’articolo su Jerôme. Asciugato in sala macchine biancheria e vestiti bagnati dalla pioggia.

Lunedì 25 gennaio 2016
Sveglio alle 6.00 per fare foto, ma pioggia e cielo copertissimo. Dormito benissimo.
Usciamo alle 8.00 da Prince Olav Harbour. Passiamo accanto a una piccola laguna con un faro abbandonato. A destra Possession Bay, dove Cook ha messo piede in Georgia la prima volta.
Siamo diretti a Blue Whale Harbour, dove ci sono resti di abitazioni in caverna di cacciatori di foche.
Ci fermiamo a Tornquist Bay, dove è affondato il mercantile Tornquist negli anni 30’. I nostri tre subacquei si immergono, ma l’acqua è torbida, accanto alla scogliera verticale, e vedono solo poche frazioni del relitto immerso.
“The art of enjoying doing nothing”: la definizione che abbiamo trovato per alcuni momenti delle nostre giornate, lasciando la mente essere disoccupata. Imparare ad annotare e sfruttare le sensazioni quando arrivano. Nessuno pensa a cercare fatti o spiegazioni su Internet, come è purtroppo invalsa l’abitudine, per la pigrizia di cercare di ricordare ciò che ognuno sa. Siamo totalmente disinformati di ciò che succede nel mondo. Come fino a qualche decennio fa, qui e altrove, ignoriamo ciò che succede fuori dalla baia in cui siamo. Siamo veramente fuori dal mondo. In tutti i posti dove ci fermiamo, continuo ed assordante concerto di foche, pinguini, elefanti marini, uccelli, onde che frangono.
Capisco perché tanti marinai del passato costruivano modelli di navi, o intagliavano zanne di elefanti marini o denti di capodoglio; era uno del pochi modi, per uomini destinati a vivere nell’effimero, nel vento e nelle bufere, di convincersi della loro realtà tangibili, di lasciare qualcosa della loro esistenza. Nulla rimaneva infatti dei decenni passati in navigazione, salvo le scie delle loro navi. Perciò ho una venerazione per i modelli antichi, perciò conservo alcune zanne e due denti intagliati, avendoli cercati per anni.
Trovo il titolo della mia prossima mostra (a Turku, in Finlandia, nel locale museo navale): “Dei Mari e dei Destini”. Esporrò le mie immagini di relitti, il mio modello di Nave Vespucci e le foto che ho scattato a bordo di essa in alcuni soggiorni.
Torniamo a Blue Whale Bay. Sbarcano in sette e vogliono attraversare a piedi verso Antartic Bay. Jerôme e io partiamo con Golden Fleece e, giunti sul posto, aspettiamo all’ancora con 30-40 nodi. Lunga nostra chiacchierata su Internet, genitori rispettivi, caratteristiche degli inglesi e difficoltà di interagire con loro. Nonostante Jerôme abbia vissuto 47 anni alle Falkland o in Nuova Zelanda, abbia avuto una moglie australiana, abbia ora passaporto inglese, gli rimane una decisa, gallica, incoercibile mancanza di simpatia verso gli anglosassoni. Bella sensazione all’ancora con vento da terra. Giornata bellissima e barca vuota e silenziosa, a parte noi due. Fra gli obblighi imposti a chi va a terra in Georgia dalla normativa del British Antarctic Survey intesa a proteggere l’ambiente: sciacquarsi gli stivali in una soluzione di disinfettante in una bacinella ogni volta che si torna a bordo dalla terra, per non portare su altre isole semi, spore e batteri da un’isola all’altra; lo facciamo anche per i bastoni che usiamo per respingere le foche; inoltre, controllare che gli zaini siano vuoti e puliti, che i risvolti dei pantaloni e le tasche non contengano semi o altro.
Mangiamo tre grossi pesci al forno con gratin di cavolfiore. Mi lavo a pezzi.

Martedì 26 gennaio 2016
Mi alzo con gli altri per andare da Fortuna Bay a Leith Harbour. Ma la traversata si rivelerà poi necessitare più di 4 ore. Trattasi in effetti dell’ultimo pezzo dell’epica traversata a piedi della Georgia fatta da Shackleton con altri due uomini, al fine di trovare aiuto per salvare i suoi tre compagni rimasti dall’altra parte della Georgia e il suo equipaggio rimasto sull’Isola dell’Elefante quando nel 1916 la sua nave fu stritolata dai ghiacci. Per fortuna capisco in tempo che la traversata sarà ben più impegnativa del previsto e non ci vado. Gli altri partono alle 7.45.
In fondo, sono qui per godermi il posto, fare foto, non fare sforzi inutili e gestire con oculatezza la stanchezza che è parte integrante di una simile avventura. Quindi Jerôme e io facciamo insieme il tragitto (15 miglia) verso Leith Harbour. Ci fermiamo in incantevole Hercules Bay, con due cascate successive, pissenlits, ecc. che Jerôme va a terra a raccogliere per mangiarli in insalata. Arriviamo a Leith Harbour: stazione baleniera. Sensazione unica di incontrare la storia. Come vedere un ghiacciaio restituire alla vista gli oggetti e i corpi degli alpinisti o dei soldati morti decenni prima in alta montagna. Salgo 200 metri per avere vista migliore.
Fotografo a Jericho la coffa di una baleniera affondata, con le foche che giocano sulla spiaggia. Bella immagine. Fotografo altresì due barche da lavoro in legno a sinistra della flensing plan (piano inclinato destinato ad issare le balene per poterle squartare e utilizzare commercialmente), una barca in legno sotto i cinque silos verticali arrugginiti. Vediamo uno dei cimiteri dove sono sepolti i balenieri norvegesi morti qui. Gli altri si fanno vivi per radio ma non si capisce se sono giunti a Stromness o se stanno arrivando qui. Temperatura: 3°. Difficile fare foto con vento a 30 nodi…. Per fortuna sono vestito caldo, ma mi sento un astronauta. La difficoltà consiste anche nel cercare immagini rimanendo continuamente sul pezzo, senza distrarsi mai, indipendentemente dalle condizioni ambientali. Jerôme mi racconta che la sua ex moglie, Sally, con la quale ha anche scritto varie guide per turisti, navigatori e esperti di fauna e flora, si trova ora a Husvik, con il suo attuale compagno, nella baia successiva a Stromness.
Nel pomeriggio torniamo a Hercules Bay. Tante foto a terra di pinguini Macaroni, foche, elefanti marini, e delle due cascate. Poi a terra prendo il sole, tenendo lontane le foche. Gli altri a fare foto, registrare i suoni degli animali o a raccogliere pissenlits (piscialetto: il cui fiore è il simbolo del Larousse).
Stasera borscht con montone e poi torta al rabarbaro.

Mercoledì 27 gennaio 2016
Di nuovo a Leith Harbour, a terra. Fotografato a lungo le due scialuppe e la coffa della baleniera affondata, purtroppo sempre solo da lontano (200 metri) a causa del divieto. Partiamo, passando accanto al faro di Grass Island. I tre subacquei si tuffano. Andiamo a Husvik Bay. Ci ancoriamo davanti alla stazione di ricerca, che è accanto alla vecchia stazione baleniera. In rada un Damien IV (modello di barca copiato dal Damien II disegnato da Jerôme e utilizzato da lui per 15 anni per ibernare in Antartico, circumnavigare l’Antartico, e vivere con sua moglie Sally per diversi anni). Appartiene a colui che ha portato a Husvik Sally e il suo compagno. Sally e il suo compagno stanno per un mese a Husvik, per fare ricerche scientifiche sulla vegetazione. La incontro a terra e le dico che ho apprezzato il suo libro sulle Falkland e quello sulla loro vita a bordo per alcuni anni. E’ circa coetanea di Jerôme. Faccio foto di Karakatta, tirato su uno scivolo, utilizzato per decenni per produrre vapore per la stazione baleniera, con un buco nella fiancata da dove uscivano i tubi del vapore. Poi a terra foto del cimitero e di una foca bianca, che non è albina.
Partiamo da Husvik. Nel tragitto verso Jumbo Cove, vedo per la prima volta Jerôme in difficoltà: eravamo con il pilota automatico e, volendo passare in una strettoia fra la costa e uno scoglio, ha disinserito il pilota automatico, ma non si è contestualmente inserito il pilotaggio manuale. Avevamo sei metri a destra e a sinistra. Jerôme non sapeva come fare. Non capiva cosa era successo. Ha quindi fatto marcia indietro (andavamo pianissimo) e si è guardato intorno. Si è accorto che aveva dimenticato uno switch. Poi abbiamo ripreso la via. Incredibile come fa presto a succedere un incidente, anche a un super esperto…                         
Ci muoviamo passando da Jumbo Cove, dove fotografo da bordo una scialuppa di salvataggio della nave Southern Foster, di cui conoscevo l’esistenza. Un elefante si piazza davanti alla prua smantellata della scialuppa. Bella foto.
Arriviamo per la notte a Carlita Bay, nella Cumberland West Bay.
Jerôme mi racconta la storia del primo Golden Fleece, barca in legno da lavoro varata nel 1905, regalatagli negli anni 80’ da un falklandese, incautamente affidata da Jerome ad un carpentiere cileno delle Falkland per rifarne il fasciame, affondata al traino durante un trasferimento. Aveva promesso a colui che gliela aveva regalata di chiamare così la sua barca. Lunga chiacchierata sull’educazione dei figli, sui gesuiti, sulla libertà, sul collegio dove è stato per otto anni. Suo figlio è stato a scuola in un Collegio del Mondo Unito, utile istituzione che forma giovani di tutti i continenti e razze, abituandoli alla convivenza. Ce n’è uno anche a Trieste.

Giovedì 28 gennaio 2016
Ore 04.00: si sono scaricate le batterie in barca: il generatore non funziona bene. L’ancora ara e gli iceberg penetrano in Carlita Bay. Luna quasi piena. Sveglia sgradevole, in queste circostanze. Freddissimo. La baia è molto piccola, con poco fondo, e non vi è spazio di manovra. Dobbiamo alzare l’ancora e spostarci in un luogo più riparato.
Ore 07.30: iceberg a portata di mano. Spettacolo molto bello. Nevischia. Andiamo verso ghiacciaio Neumayer.
Il secondo figlio di Jerôme, Leif, ha 33 anni. Ha già fatto un giro del mondo a vela in emisfero sud, un giro della Nuova Zelanda e della Georgia del Sud in kajak, e si prepara a passare in questi giorni il Capo Horn da est verso ovest e risalire il Pacifico verso le Aleutine, per una durata presunta di due anni. Ha finito la tosatura delle pecore a Beaver Island. Ha parlato con suo padre via Iridium. Il telefono a Beaver è rotto. Per fare venire un tecnico dei telefoni a Beaver, bisogna che Jerôme, che ha il brevetto di pompiere, sia a terra per accogliere il monomotore della locale compagnia aerea. Ovviamente, ci deve andare in barca (200 miglia da Stanley). Gli elicotteri non vengono usati per il traffico normale di passeggeri.
Fotografato il ghiacciaio Neumayer. In circa 30 anni, si è accorciato di circa 7 km in lunghezza, di 2-3 km in larghezza e di 500 metri in altezza. Totale: 7.000x3.000x500 = 10.500.000.000 m3 (10 miliardi di m3). Mentre navighiamo, incrociamo una balena.
Arriviamo a Grytviken. 30 abitanti. L’harbour master viene a bordo a fare le pratiche doganali. Poi fotografo dei contro sole. Colazione a bordo. Facciamo acqua con il tubo. Poi riparto per fotografare. Arrivano anche vento e pioggia. Vado a piedi alla base del British Antarctic Survey, a circa 2 km, per fotografare il mezzo da sbarco argentino Fenix rimasto lì dopo il 1982. Mi mancano da vedere il cimitero e la chiesa. Il museo è estremamente interessante e ben fatto. Compro francobolli per il mio gallerista Jean Blanchaert e per me, qualche oggetto e invio cartoline.

Venerdì 29 gennaio 2016
Siamo sempre a Grytviken. Sole forte. Mi alzo alle 07.30. Facciamo ancora acqua. Ieri notte Jerôme ha dimenticato di chiudere il tubo dell’acqua e l’acqua in eccesso dei serbatoi (4 tonnellate) è andata nella sentina. La svuotiamo con la pompa da sentina. Fuori a fare foto fino alle 12.00. Fotografato le baleniere Petrel, Dias, Albatros, scialuppe, archeologia industriale, oggetti davanti al Museo, foca che allatta. Chiacchierato in russo con membri (russi, bielorussi, crimeani) dell’equipaggio della nave passeggeri russa Polar Pioneer (ex rompighiaccio artico); sono sorpresi di trovare un russofono. Gestiscono il trasporto a terra dei turisti in Zodiac. Rivisitato il Museo con calma. Visitato con cura la chiesa (protestante, costruita nel 1913, con biblioteca di Shackleton e numerosi memento storici). Un avviso invita a suonare le campane al primo piano. Lo faccio. C’è tanto vento che la chiesa geme e ondeggia, nonostante sia controventata per resistere al peggio. Non vado al cimitero; troppe foche irritate e aggressive.
A bordo caricato sul mio hard disk le mie memorie fotografiche tramite un Mac: le prime 1.413 foto scattate. Per fortuna nello stesso hard disk era presente un driver che ha permesso a Florence di utilizzare il suo Mac.
Partiamo da Grytviken per Nordenskjold Glacier. Passiamo vicino al ghiacciaio, ma i pezzi di ghiaccio in bilico si rifiutano di cadere: nessuna foto eccezionale. Ripartiamo per Godthul. Per strada lasciamo a terra quattro dei nostri per fare la traversata a piedi. Temperatura: 3-5°. Vento sempre intorno a 10-15 nodi. Navigando nel fiordo si vedono le tracce di dove il ghiacciaio ha piallato le rocce.
A King Edward Point (sede del British Antarctic Survey), Jerôme si è procurato (tramite Martin Collins) 22 kg di krill congelato: conglomerato di piccoli pesci e crostacei di circa 5 mm – 6 cm, senza il loro carapace perché contiene fluoro (lo tolgono automaticamente al momento del congelamento subito dopo la pesca); è questo che mangiano le balene, trattenendolo all’interno dei loro fanoni e lasciando ex-filtrare l’acqua. Lo si vende molto ad esempio in Giappone.
Circa due ore di navigazione intorno alla punta per arrivare a Godthul. Andiamo a terra a fotografare due-tre scialuppe anticamente utilizzate per trasportare l’acqua alla stazione baleniera, che era però solo una stazione di transito e di stoccaggio. Molte foche e pinguini, indignati o curiosi. Cumuli immensi di ossa di balene: sia quelle a suo tempo portate lì, sia quelle arenatesi nei decenni.
La sera aperitivo con krill e maionese, e vino bianco. Jerôme si indigna perché i tre ospiti inglesi non capiscono nulla di cucina e di buon mangiare.

Sabato 30 gennaio 2016
Sveglio alle 06.30. Ci spostiamo a Cobbler’s Cave I tre subacquei si tuffano, uno di noi va a vedere i pinguini Macaroni, 2 vanno a spasso.
Ripartiamo verso Ocean Harbour, ove è arenata da 105 anni il tre alberi Bayard.
Il terzo figlio di Jerôme, Jeremy, ha – secondo il padre – la sindrome di Asperger, come Napoleone e Bill Gates: tratterebbesi di una forma di autismo; coloro che ne sono affetti hanno a quanto sembra una logica diversa. E’ quello giardiniere a Stanley.
Jerôme mi racconta come, in ibernaggio invernale nel 1975 nella penisola Antartica (Baia Margarita), ha incontrato il capo della base argentina, che era un ex poliziotto torturatore, Gustavo. Quest’ultimo ha fatto una volta un giorno di viaggio con la motoslitta per venire a “confessarsi” a Jerôme e alla moglie. Ha raccontato loro di come torturavano, chi torturavano, con quali metodi, i dubbi che aveva su come comportarsi con le donne incinte, come seppellivano, come buttavano dagli aerei, come prendevano i bambini nelle loro famiglie. I racconti furono molto forti per loro, giovanissimi, soli, a – 40° di temperatura, senza poter spartire con nessuno questi terribili racconti. Gli scienziati inglesi della base UK, sempre in Antartico, non volevano credere che tutto ciò fosse possibile. Jerôme ha rivisto il torturatore argentino a Baires, poi lo hanno inviato in un piccolo villaggio nelle Ande. Racconto a Jerôme simili episodi occorsi in URSS; Europa dell’Est, Italia. Parliamo della Resistenza nei nostri paesi.
Riparo la carta della Georgia (utilizzata da noi passeggeri) con scotch: si stava aprendo in tanti pezzi.
Racconto a Jerôme la storia del derrumbe e dell’incidente occorso a mio padre nel 1968 in montagna in Perù.
Jerôme ha avuto circa 600 passeggeri in 25 anni di charter: turisti, fotografi, sciatori, BBC, National Geographic, Salgado, ecc. A bordo, alcuni sono riusciti ad aprirsi ed a raccontare le loro vite.
Giungiamo a Ocean Harbour: aspettavo da tempo di incontrare il tre alberi Bayard, arenato dal 1911. Occasione unica, emozionante ed indimenticabile. Avendo navigato su Nave Vespucci, riesco a rivivere i momenti di navigazione vissuti dall’equipaggio di Bayard. Golden Fleece si affianca, ci ormeggiamo e andiamo a bordo. Circa tre metri di dislivello fra la nave e la barca. La salita e la discesa sono rischiose. La coperta è densa di tussock, cresciuto sulla terra recata dal vento. Nel tussock, decine di cormorani indignati. La coperta è piena di buchi: il legno è marcio. Si deve camminare con molta attenzione, tenendosi ove possibile alla murata. Molte bigotte sono ancora attaccate alle lande. I tronchi maggiori dei tre alberi e del bompresso sono ancora in situ. Il meccanismo del timone è lì. L’argano verticale di prua (salpa ancora) è lì. L’atmosfera è decisamente impressionante. Jerôme sale da Golden Fleece con un rocchetto di filo da pesca e un amo, si avvicina a una stiva, butta l’amo (senza esca) e pesca uno dopo l’altro 4 pesci di 50 cm l’uno! Poi raccoglie dei pissenlits (piscialetto), cresciuti anche lì.
Successivamente andiamo a terra. Fotografo i resti della stazione: quale fan del vapore, non posso mancare dal fotografare la locomotiva arrugginita a scartamento ridotto (60 cm) che operava nella stazione, la nave Bayard da terra, delle foche che giocano nei calderoni (“trypots”), ora abbandonati in acqua vicino alla battigia, che servivano a far bollire il loro grasso per estrarne l’olio. Fotografo anche il locale cimitero. Uno dei morti, dicono le guide, è stato a suo tempo trovato con un buco di pallottola nel cranio. La stazione ha funzionato dal 1908 al 1925. Poi è stata smontata e abbandonata, ma sono rimasti cumuli enormi di ossa di balena ed edifici. In tutta la zona si sono poi depositati alluvioni recati dal fiume che viene dal ghiacciaio. Poi lo stesso fiume ha cambiato corso più volte, scavandosi vari percorsi. Si vedono quindi sulle rive del fiume (alte circa due metri) legname ed ossa in abbondanza che fuoriescono dalle scarpate: impressionantissimo. Alcune strutture metalliche (fra cui la locomotiva) sono rimaste visibili perché un po’ più alte delle altre.
Camminando lungo la spiaggia rischio di inciampare in un elefante di mare: mi ero distratto e non me ne ero accorto. Recentemente (un mese prima del nostro passaggio) un turista incauto è stato morso da un elefante. Per fortuna a bordo della nave di cui era un passeggero c’era un chirurgo specializzato in suture dei vasi sanguigni. Così gli ha salvato il braccio. Poi la nave si è diretta in velocità verso le Falkland. Giunta a distanza adeguata un elicottero della RAF è partito da Stanley, ha caricato il turista e lo ha portato in ospedale a Stanley.
Proseguo sulla spiaggia per fotografare a lungo Bayard da terra.
La permanenza in un ambiente così isolato come l’Atlantico meridionale, su una barca, e il fatto di riuscire ad essere a lungo solo a terra mi portano a riflettere.
Ringrazio di aver avuto passioni che mi hanno permesso di avere tutta la vita il desiderio di cercare più a fondo, e di non limitarmi al mio lavoro. Per anni il desiderio è stato latente, finché ho capito che dovevo cercare. Non sono un poeta, ma ho l’impressione che i sogni accumulati durante decenni hanno portato frutti, se sono riuscito a individuare il momento giusto per fare questo viaggio. Prima non avevo la capacità di coglierne gli aspetti che completano una parte della mia vita. Fra qualche anno avrei avuto difficoltà fisiche ad affrontarlo.
Credo infatti di essere entrato in un momento spirituale che mi ha permesso di intuire quanto una dose notevole di poesia sia necessaria per affrontare la ricerca di se stesso, insieme al rigore. L’attrazione fortissima che da sempre provo per la navigazione nei mari australi, e che finalmente realizzo, è come uno strumento per contribuire a liberare i miei pensieri. La tensione inevitabile che si prova a bordo di Golden Fleece, a causa delle continue sollecitazioni sensoriali, della navigazione in mezzo ai ghiacci, dello sforzo necessario per resistere al freddo e continuare a bene cogliere sensazioni e a scattare foto, lascia il posto talvolta a momenti in cui la tensione si scarica e il pensiero corre, anche solo per pochi istanti. In quei momenti cerco di fisare i ricordi e le immagini che si susseguono.
Colgo ad esempio l’apparente contraddizione fra il fatto di vivere benissimo ora in una casa in campagna, con il pavimento al livello del suolo, quindi avendo sempre i piedi – anche in senso reale – ben poggiati in terra, e il fatto di trovarmi benissimo a bordo di una barca sempre in movimento, con il corpo obbligato ad adattarsi sempre al cambio di orizzonte.
Vi sono poi i momenti di beatitudine, in mezzo ad una colonia di un milione di pinguini, ad esempio, o quando si sale a bordo di un tre alberi arenato da 105 anni come il Bayard, ancora strutturalmente intatto. E allora mi sembra importante riflettere e fare sostare i pensieri.
La riscoperta della notte, ad esempio: avevo dimenticato ciò che si prova navigando di notte. La Croce del Sud, dalla misteriosa bellezza, forse per il simbolo non mitologico da cui trae il nome? Certo che alla scelta di un nome simile ha contribuito, presso chi l’ha battezzata secoli fa (era visibile dai Romani e dai Greci, ma fu descritta per la prima volta nel 1516 dal navigatore italiano Andrea Corsali), la consapevolezza che la navigazione nell’emisfero sud aveva caratteristiche di pericolo tali da rendere indispensabile la presenza tutelare della Croce…
La navigazione di notte, quando tutti dormono e solo l’uomo di guardia veglia, quando non vi sono luci salvo quelle notturne degli strumenti, invita a riflettere - a tutte le latitudini ma forse soprattutto nei mari più australi – all’incredibile solitudine ed al coraggio delle migliaia di esploratori e di marinai che, per un ideale o per guadagnarsi il pane, hanno navigato in queste acque, senza strumenti, senza poter prevedere i loro tempi di arrivo, senza avere un idea di quello che il tempo poteva riservare loro dopo poche ore. Quando si è di notte in timoneria - e si sente la mancanza dei rituali rintocchi di campana che nell’antichità scandivano lo scorrere dei quarti di guardia -, una volta cessato lo scarno scambio di commenti con l’uomo di guardia, si rimane soli con se stessi, e i pensieri ne chiamano altri, impedendo alla mente di assopirsi, non diversamente da quanto avviene in un bivacco in montagna. Scomodamente seduti o reclinati sulla panca di veglia, si tracciano bilanci, appaiono gli errori, gli sbandamenti, le indecisioni e le incertezze. Si attende e nello stesso tempo si teme l’alba, che interromperà questo stato di grazia, ma in compenso toglierà la paura della notte, sempre presente. I sensi sono infatti sempre vigili: cos’è quella macchia sul radar che non scompare al prossimo giro? Quel chiarore soffuso potrebbe essere un iceberg?
Tornando a bordo sono stregato dalla bellezza del posto. Scatto un centinaio di foto, con cavalletto, dalla barca. Sindrome di Stendhal?
La sera aperitivo con pezzi di squid fritto e vino bianco. Poi Jerôme fa 5 pizze. Riusciamo a mangiarne 4, con i pissenlits con crostini.
Ho mal di schiena.
Lunga conversazione con Jerôme su Berlusconi, Sarkozy, Hollande. Ce l’ha con gli inglesi (quelli che ostacolano le visite in Georgia) e contesta i tre inglesi a bordo, che non apprezzano sufficientemente la sua cucina.
Faccio foto fino alle 22.40.

Domenica 31 gennaio 2016
Dormito alla fonda a Ocean Harbour. Mi alzo alle 5.30 per fotografare l’alba. Incredibile vedersi svegliare la baia. Anche gli altri si alzano. I tre subacquei si tuffano.
Ci muoviamo verso la baia di Saint Andrews, la colonia di pinguini otarie più popolata: un milione di capi. Il ghiacciaio, 40 anni fa, arrivava sulla spiaggia ed era alto 40 metri: ho visto le foto scattate da Jerome. Ora è arretrato di 5 km. Passiamo in barca facendo un lungo giro in senso orario, vedendo sfilare le morene frontali, le lagune, e migliaia di pinguini sulla riva. Andiamo a terra, in quello che era il letto del ghiacciaio. Lo risalgo, fino alla laguna che è sotto il ghiacciaio, ormai arretrato. Visito una capanna di emergenza, destinata a chi dovesse avere bisogno: naufragi, spedizioni in difficoltà, BAS in trasferta. Contiene cuccette, viveri, medicinali, vestiario, combustibile e fornello, materiale, attrezzi. La capanna è controventata e attaccata al suolo con cavi d’acciaio di 2 cm di diametro. Varie foche davanti alla porta ne impediscono l’accesso, salvo a farle sloggiare in punta di bastone. Porta con tre diverse chiusure (senza chiave, naturalmente). Scheletri integri di renna tutt’intorno. Passo tre ore a spasso da solo. Totale silenzio e libertà. Identità con l’ambiente circostante. Grugniti degli elefanti, lamenti dei pinguini, piccoli grugniti piagnucolosi delle foche piccole. Poi mi fermo all’inizio di un pendio. Dopo un po’ vengono da me pinguini e foche, che mi vedono fermo ed inoffensivo, ed iniziano a curiosare. Filmo elefanti di mare irritati dalla mia presenza (a 3 metri), foche che giocano, uccelli e un pinguino che mi segue per 20 minuti e non mi molla. Tantissimo kelp sulla spiaggia, secco. Può essere lungo fino a 40 metri, ed ha una struttura a nido d’ape. Successivamente, giro in Zodiac con Jerôme e Nelly a vedere delle otarie, che spesso vengono mangiate dai leopardi di mare. Ci porta in una baietta da cui trenta anni fa ha estratto una balena che non riusciva più ad uscire.
A bordo aiuto a pulire i pissenlits. Aggiorno i miei appunti sulla Georgia del Sud dal libro di Ian Hart “Pesca” (Cia Argentina de Pesca SA).
Jerôme mi parla di un relitto, il Guvernoren, nella Penisola Antartica: la nave apparteneva alla stessa compagnia proprietaria di un'altra nave, affondata alle Falkland, che nel 1917 ha urtato al largo di Halifax il cargo Mont Blanc, carico di munizioni, esploso in porto causando migliaia di morti, molti dei quali spettatori venuti ad assistere ai tentativi di spegnimento dell’incendio: la maggiore esplosione non nucleare sulla Terra. Il Guvernoren affondato alle Falkland, colpevole dell’incidente a Halifax, era stato ribattezzato Imo.
Aperitivo con caipirinha. Cena con zuppa di pesce (quello pescato su Bayard) e torta al rabarbaro.
Lunga conversazione con Jerôme sui navigatori francesi: Tabarly, Moitessier, Kersauson, Colas, ecc. Sorpreso che io ne sappia tanto. Sorpreso che io abbia passato un mese ai Glénans. E un mese su Pen Duick. E che io sia stato Scout de France. In realtà, nonostante la mia cultura francese (ho cominciato a studiare l’italiano a tredici anni) è la prima volta che sono a stretto contatto continuo con dei francesi. In carriera non sono mai stato in sedi di lingua francese.
Osservo quanto sono serviti ai giovani francesi i Glénans (creati dopo la guerra per aiutare i giovani sbandati), i numerosi navigatori francesi, i Cap Horniers (gli parlo del Museo di St Malo). Da decenni ormai la tradizione marinara in Francia è ben impiantata.
Grégoire ha la patente “200 tonnes voile”; ha servito 6 mesi ai Caraibi su una barca italiana.
Stasera leggo il libro di Charnay su Moitessier. Jerôme conosceva bene Moitessier e lo ammira, insieme a Salgado e a pochi altri.
Oggi esperienze intense, con animali e anche di comunione nell’ex letto del ghiacciaio, ritiratosi.
Il nostro gabinetto è definitivamente otturato dal calcare.
Spengo alle 11.30 circa; giornata di 18 ore.

Lunedì 1° febbraio 2016
Dormito bene. Lavato e cambiato.
Lasciamo Saint Andrews Bay alle 08.00. Arriviamo a Bjornstadt Bay alle 10.30. Vento 15-25 nodi. Raffiche a 60 nodi. Passaggio strettissimo accanto a Cape Charlotte. I tre subacquei si tuffano.
Molliamo due gruppi che faranno la traversata a piedi.
Comincio a leggere il quarto e ultimo libro di Moitessier, che non conoscevo, “Tamata et l’Alliance”, che ha impiegato 8 anni a scrivere, e che rappresenta il suo testamento spirituale. Comincio anche, su pressante invito di Jerôme, il libro di Gérard Janichon su Moitessier, “Dieux et Dragons”; Janichon è stato compagno di avventura di Jerome per 5 anni dal 1969 al 1973. Poi le loro sorti si sono divise. Gérard ha fallito quasi tutto ciò che ha intrapreso, salvo mettersi a scrivere bene e con successo. Questo suo libro è in realtà un’autoanalisi: attraverso le vicende di Moitessier, Janichon esplora se stesso e i propri fallimenti. Condivido l’osservazione di Janichon sul fatto che la rilettura di “Un vagabond des mers du Sud” di Moitessier gli serviva a ricaricare le batterie. Moitessier ha scritto anche “Cap Horn à la voile” (storia del suo rientro dal Pacifico in Francia), e “La longue route” (quando decise di non tornare in Europa al termine del suo giro del mondo).
Ricordo nel libro di Tabarly “Victoire en solitaire”: “La puissance fascinante des mers australes”. Gli abissi personali di ciascuno. “Au sud, il y a la vie” (Vito Dumas). Le sensazioni provate in questa navigazione, come un onda che sorge dal fondo del mare. “Pour sauver mon âme”: spiegazione data da Moitessier per spiegare perché non volle tornare in Europa, continuando dopo il passaggio del Capo Horn nel 1969. Aveva ragione.
Arriviamo a Gold Harbour alle 14.00 per recuperare due gruppi che dovrebbero recarvisi a piedi. 40 nodi fissi. Punte a 60 nodi: l’anemometro si blocca a 60 nodi perché le sue alette si allargano e si bloccano quindi non sapremo mai a quanto soffia. Ma se la lancetta rimane a lungo a 60, è presumibile che le raffiche siano ben oltre i 60…. Onde orizzontali. Impossibile mettere a mare lo Zodiac. Torniamo a Bjornstadt Bay. Gli altri (3+2 persone) tornano indietro. Nella parte alta del loro percorso, prima di fare dietro front, sul ciglio del colle che divide le due baie, il vento era così forte che ha fatto volare per 5 metri uno di loro, abbastanza leggero.
Mangiamo alle 17.00 due salsicce. Dormiamo a Bjornstadt Bay con 30 nodi in diminuzione. A letto alle 23.00. Finito il libro di Janichon. Commentato a Jerôme.

Martedì 2 febbraio 2016
Vado a terra alle 08.00 con la sola Olympus sotto la pioggia. 70 foto di elefanti di mare, petrels, ecc. Mentre siamo sulla spiaggia arriva la nave da crociera tedesca Bremen, con un equipaggio peruviano agli ordini di una guida cattivissima, un tedesco che ci guarda malissimo: mettono bandierine per delimitare una sorta di percorso che i turisti, appena sbarcati dagli Zodiac, devono percorrere senza uscirne, per evitare pericoli a se medesimi e disturbi agli animali. Arrivano a gruppi di 20 e camminano lungo la battigia o all’interno, per non disturbare foche ed elefanti. Le navi passeggeri vedono gli yachts come il fumo negli occhi. Noi torniamo in anticipo, piano, per non dare l’impressione a quelli del Bremen che disturbiamo gli animali, inducendoli così a denunciarci presso il BAS. Ma noi stessi potremmo denunciarli, visto che hanno usato i flash… Questo è il modo in cui i pochi turisti in Georgia interagiscono fra loro…. Nelly è caduta in un buco nel tussock piena di acqua, fango, urina e escrementi di elefanti e foche. Ha dovuto essere estratta. Subito a bordo fa una doccia calda. Partiamo al più presto. Jerôme detesta spartire le baie con navi di turisti.
Partiamo alle 10.30 diretti a Larsen Harbour, quasi all’estremo sud della Georgia. Per stasera previsto forte vento. Vogliamo essere al riparo, e Larsen Harbour è l’ideale. Couscous in preparazione. Ci fermiamo brevemente a Iris Bay. Lungo giro vicino ai due ghiacciai, che a forza di ritirarsi creeranno un’isola. Piove. Fotografiamo un leopard seal di 2,50 metri che dorme su un piccolo iceberg e che si sveglia solo quando la prua della barca arriva pianissimo sulla sua verticale. Brutta faccia… Navighiamo in mezzo ai ghiacci. Ci sono anche alcuni iceberg tabulari provenienti dall’Antartico, non troppo grandi: alti 20 metri, incagliati lungo la morena frontale di uno dei ghiacciai. Infatti, il fondo marino passa brutalmente da 70 a 5 metri. Freddo e pioggia: 5°. Bevuto minestra bollente di montone e funghi.
Barometro crolla a 981. Da 1.000 che era 6 ore fa. Temperatura in cabina 13°. Mangiato paté di fegato di renna.
Risalito Drygalski Fjord. Visto una mink whale. Poi tornati indietro fino a Larsen Harbour. Nevica. Freddo. Pochissimo vento all’ormeggio. Passando abbiamo visto in posto (conosciuto solo da Jerôme) dove sono i nidi dei pinguini Macaroni, dei pinguini con giugulare, dei pinguini manchots, dei pinguini reali e dei pinguini papous (gentoos).
Questa sera couscous (completo di carne, verdure, salse, ecc.) con musica araba, sotto la neve, a Larsen Harbour. Barometro rosale.
Letto libro di Charnay “Moitessier, Dieux et Dragons”.
Di solito dormo in T-shirt e pantaloni della tuta Musto. Ma stasera son 14° in cabina. Quindi T-shirt, maglia tecnica, pile North Face. Mani gelate. Berretto in testa (come sempre, con cera e copri occhi). Leggo la Bibbia e l’ultimo libro di Moitessier.

Mercoledì 3 febbraio 2016
Sveglia alle 07.00. Ha nevicato: tutta la barca è bianca. Qualcuno ha fatto un pupazzo di neve a poppa. Temperatura in cabina 13°. Barometro sale. Larsen Harbour è così incassato nel fiordo che il vento ci passa sopra senza problemi.
Ore 9.00: proviamo ad uscire da Larsen Harbour per fare il giro da sud della Georgia. Troppo vento e troppo mare: torniamo indietro e ributtiamo l’ancora a Larsen Harbour. Ci tengono compagnia delle foche di Weddell, inabituali qui. Riproveremo a partire in pomeriggio. I tre subacquei si tuffano. Nel pomeriggio rimango a bordo all’ancora, mentre gli altri vanno a vedere le foche di Weddell. Scrivo sul Mac di Nelly l’articolo su Jerôme. Il barometro sale. Fuori 0°. In cabina 14°. Messo maglia a maniche lunghe invece del T-shirt, e un secondo paio di calze. Tirato fuori i guanti da vela impermeabili, pesanti ed alti.
Facciamo il pane tuti i giorni. Stasera: soufflé al krill. Siamo ancora all’ancora, per la notte. Domattina partiamo prestissimo. Ho chiesto a Jerome di essere a Stanley per tempo, in modo da avere abbastanza tempo per fotografare i relitti lì. E Martin Collins deve correre la mezza maratona che si svolgerà domenica 14 febbraio.

Giovedì 4 febbraio 2016
Salpiamo alle 06.00. Alba straordinaria. Aggiriamo da Sud la Green Island, all’estremità meridionale della Georgia, poi torniamo indietro in un passaggio strettissimo fra l’isola e la Georgia. Jerôme inverte la rotta in mezzo al passaggio, con una manovra da fare rizzare i capelli, con 2 metri a prua e 2 metri a poppa a dividerci rispettivamente dall’isola e dalla Georgia. Incredibile! Ci segnala che non può completare il passaggio fra le due isole solo perché gli mancano 50 cm. Con Damien II, passava… Passiamo vicino ad un bellissimo iceberg, che riesco a fotografare bene contro luce.
Giungiamo a Trollhul Bay: lunga e bella spiaggia. Buttiamo l’ancora.
A terra, otarie cattive. Scendendo a terra dallo Zodiac mi stiro un paio di muscoli della schiena. Dolorante, vado a vedere il ghiacciaio. A bordo, dopo essermi riposato due ore, prendo dosi di Arnica ogni due ore e mi faccio massaggi con Voltaren. Finora, non ho praticamente utilizzato il contenuto dei tupperware in cui ho riposto le medicine che ho comprato per il viaggio: ho comprato di tutto, per essere pronto a quasi tutti i malanni e incidenti. Tocco ferro. So che il medico più vicino è a 4-5 giorni di navigazione….
Ci trasferiamo quindi a Duclos Head, dove Duncan Carse (esploratore inglese degli anni 1970) si fece lasciare per diversi mesi per verificare le possibilità di sopravvivenza. Una delle prime notti che ha passato a terra nella capanna all’uopo costruita, un’onda anomala ha portato via la capanna con lui dentro. Si è salvato ed ha continuato l’esperimento. Vicino ai resti della capanna è spiaggiata una struttura metallica che deve essere stata parte di un molo galleggiante, anticamente. La fotografo.
Finora, da Stanley il 17/1, abbiamo percorso circa 1.100 miglia. Ce ne rimangono ancora 850 per tornare a Stanley.
In vista della traversata verso Stanley, tutto è rizzato in coperta, in tuga, in quadrato, in cucina, nelle cabine, in sala macchine. Preso Arnica, Voltaren e Xamamina. Speriamo di non avere di nuovo incubi…
Salpiamo alle 19.30.

Venerdì 5 febbraio 2016
In navigazione. Mangiato una porzione di insalata di riso e vomitato subito. In cuccetta con mal di mare. Franck lascia la nostra cabina e crolla in quadrato, su una delle panche, vestito e in stato quasi comatoso: rimarrà così per 60 ore. Dice di non sopportare i salti della barca: abbiamo 35 nodi di vento in prua. Abbiamo poggiato un po’ per fare soffrire meno la barca (e noi), ma a prua i salti sono comunque notevoli. In genere non mi danno fastidio, anche se sto male. E poi mi piace il fruscio (o il baccano) della prua nell’onda (o nel ghiaccio, cosa frequente in questa navigazione). Sembra talvolta il rumore del treno sulle rotaie, quando le rotaie sono corte e si sente il salto. Oppure come essere in un grembo materno. Chi sa come si sentiva Giona nella balena?
Il nostro gabinetto è di nuovo otturato. Il calcare formatosi nel tempo lo ha bloccato. Jerôme deve aspettare un tempo un po’ più clemente per tentare di nuovo di disostruirlo. Dobbiamo utilizzare il bagno a poppa, che è però già usato dai 5 che sono nelle cabine a poppa.
Mentre mi crogiolo in cuccetta, ne approfitto per approfondire una tematica che mi incuriosisce da tempo: cercare di elencare alcuni aspetti dell’acquis della parte più privilegiata dell’umanità, cioè il conseguimento di alcune libertà e la conquista della sicurezza in alcuni settori, pur rimanendo purtroppo in gran parte del mondo vessazioni, violenze, umiliazioni. Mi vengono in mente ovviamente le quattro libertà fondamentali citate dal Presidente Franklin Delano Roosevelt il 6 gennaio 1941 nel suo Discorso annuale al Congresso: libertà di parola, libertà di credo, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. L’elenco, probabilmente ispirato dalla moglie del Presidente, fu inteso come noto quale programma di politica estera globale degli Stati Uniti. In che misura, 75 anni dopo le affermazioni di Roosevelt, il concetto di “libertà da…” ha preso forza nel mondo? Non essendo un cultore di sociologia né di scienza della politica, non mi soffermo sulle carenze, note a tutti, che ancora caratterizzano la messa in atto delle quattro libertà elencate da Roosevelt.
Vorrei invece capire quali condizioni hanno reso la nostra vita più o meno sicura per alcuni di noi. Ma per ogni aspetto citato rimangono immense sacche di dolore e incapacità di fare fronte alle circostanze.
Il primo punto che salta agli occhi è la diffusione a macchia d’olio del terrorismo in molti continenti. Anche a causa del “villaggio globale”, l’emulazione e la diffusione istantanea delle notizie provoca l’aumento delle guerre locali e della crudeltà che le caratterizzano: vessazioni, furti, violenza sulle donne e sui minori, schiavismo. Quante famiglie sono divise in tutti i continenti? Gli odi atavici e le persecuzioni (razza, colore di pelle, confessione, ecc.) sono più virulenti che in passato.
E, nonostante molte conquiste, che dire delle violenze contro i diversi: diversamente abili, sessualmente diversi, minorati psichici, sensoriali, mancini, ecc.
I media: certamente diventati essenziali e irrinunciabili, ma quante bugie, omissioni, inesattezze, tentativi (spesso riusciti) di disinformazia…. 
La scienza e la cultura rendono più sicura la gestione della salute. Di converso, lo stress e il degrado ambientale riducono spesso l’aspettativa di vita. Vi sono oggi d’altro canto maggiori certezze in materia di malattie, epidemie; normative più severe impediscono il ripetersi delle tragedie che un tempo caratterizzavano i parti, i decessi (con connessi sepolti vivi: non si sapeva bene distinguere fra vita e morte quando qualcuno moriva o sembrava morto. Quanti sepolti vivi nei millenni?). Le malattie della mente sono maggiormente note e meglio curabili. Le malattie veneree non sono più tabu. Ma quante malattie sono state scoperte negli ultimi decenni e rimangono senza prevenzione e senza cura? E quante colpiscono pochi pazienti e quindi vengono ignorate dalla ricerca?
Sono stati conseguiti rilevanti risultati nella lotta alla fame, nella gestione dell’agricoltura, nei principi della nutrizione, nella conservazione del cibo. Ma lo spreco aumenta.
La tecnologia dell’informazione ha cambiato il modo di pensare, lavorare, muoversi, giudicare. Ma ha anche favorito una crescente pigrizia, fra i giovani e i meno giovani: ormai tutto si trova su Internet. Pochi sono coloro che si sforzano di tirare fuori farina dal proprio sacco. Si sa tutto dei grandi criminali, e cresce la voglia di imitarli. Non importa se si diventa noti perché si è un criminale: l’importante è essere noti e riconosciuti.
I trasporti sono caratterizzati da maggiore velocità e sicurezza: navigazione stradale, ferroviaria, marittima, e aerea; si sono ridotte talune incertezze e molti pericoli legati agli spostamenti; vi è una migliore conoscenza dei fenomeni naturali: meteo, terremoti, tsunami, valanghe, tempeste; minori rischi connessi a cavalli fuori controllo, frane, briganti; abolizione dei pedaggi e delle tasse di transito, ecc.).
Inoltre, vi è oggi maggiore possibilità di scegliere lavoro e luogo di residenza. D’altro canto, all’accresciuta libertà in materia di scelte personali e relative alla creazione della propria famiglia, si contrappone la decadenza dell’Istituzione “Famiglia”, con quanto vi è correlato: violenza in famiglia, incesto. E che dire delle inaudite innovazioni in materia di matrimonio, di unioni di vari tipi, di procreazione assistita.
Vi è ora maggiore certezza quanto alle proprie origini: la genealogia non è più monopolio di pochi, e le comunicazioni permettono di mantenere contatti con amici e parenti lontani, a differenza di quanto avveniva quanto in passato: oggi chi emigra mantiene il contatto con i propri cari.
Le lentezze e le incertezze della giustizia non hanno debellato la legge del più forte nei quartieri, nelle città, nelle regioni, e fra un paese e l’altro. La sicurezza sociale deve ancora progredire.
La cultura sempre più estesa e approfondita non ha eliminato l’ignoranza, le innumerevoli forme di tortura fisica e morale.
Abbiamo in gran parte rimosso le vicende legate alla stregoneria, ma rimangono paure inconsce e non quantificabili, come la paura dell’” anno 2000”: non abbiamo superato la libertà dall’ignoto.
In passato, i nostri avi che uscivano dalla norma erano relativamente pochi, anche raffrontati alla popolazione mondiale meno numerosa: navigatori, pensatori, artisti, filosofi, geni come Gutenberg, ecc.; oggi la scrematura è molto più severa, ma per fortuna sono sempre più numerosi i fuori classe.
Le conquiste sociali hanno reso in molti paesi l’uomo meno oggetto che in passato, ma lo schiavismo continua ad esistere in tanti paesi musulmani, in Asia, in Sud America, in Sud Africa nelle miniere, in Europa nei confronti dei migranti, ecc.
Mancano oggi le grandi iniziative che inducevano l’uomo a dedicarsi con passione a imprese fuori dall’ordinario: costruzione di cattedrali o di intere città come San Pietroburgo (anche se gestite da potentati con torme di schiavi), esplorazioni del globo e dello spazio. La passione è presente, ciononostante...

Sabato 6 febbraio 2016
Mal di mare. In cuccetta. Xamamina.

Domenica 7 febbraio 2016
Sogno post Xamamina: sono nel cortile di un monastero, e un monaco paralizzato legge testi sacri (la mia mente è molto probabilmente andata al mio amico gesuita slovacco affetto da Parkinson, che risiede nel Pontificio Istituto Orientale a Roma, e che mi ha suggerito di leggere il libro “Racconti di un pellegrino russo”).
Non mangio nulla da venerdì. Comincio ad avere molta fame. Da tre giorni non vedo nessuno: anche gli altri sono in difficoltà…. Bella esperienza per chi ama la navigazione da queste parti!!!!!!! In cuccetta sperimento tutte le posizioni (degli arti): è peraltro indispensabile che il tronco rimanga orizzontale, sennò nausea immediata. Tuttavia, l’emozione di navigare in questi mari è fortissima, come quando trent’anni fa discesi a piedi di notte in 3 ore al fondo del Gran Canyon del Colorado (e risalii in 8 ore). Professionalmente questa esperienza è ricchissima. Questo mese è tuttavia più duro del previsto: poche ore di sonno, emozioni sensoriali continue, stanchezza dovuta a continue andate a terra, difficoltà di fotografare (vestitissimo, nel freddo e nel vento, sempre col treppiede, sempre munito di bastone per tenere a bada le foche, su terreno infido e scivoloso, ecc.).
In pomeriggio mi alzo e mi lavo un po’, con acqua calda: che goduria! Mangiato un terzo di toast. Poi di nuovo in cuccetta. Poi in tuga. Abbiamo 40 nodi, con raffiche a 50. In pomeriggio dovrebbe calmarsi.
Dovremmo arrivare il 10 febbraio. Dalle 13.30 abbiamo vento buono da nord, al traverso. Possiamo ripoggiare, grazie alla risalita preventiva verso nord che abbiamo fatto all’inizio. Mangiato una fetta di pane e 6 biscotti allo zenzero.
La vita quotidiana nelle traversate lunghe: riflessioni, valutazione del passato.
Esperienze positive o esaltanti: trovata la fede; alzarmi la mattina, aprirmi alla vita e ritrovare me stesso; la gioia di dare le dimissioni a 63 anni e di avere altro da fare subito; vedere apprezzata la mia arte; imparare (purtroppo tardi) a scolpire; vedere i media interessati, il pubblico attratto dalle mie opere, il sito visitato; i giovani e i meno giovani attratti dalle mie esperienze; aver ridato vita attraverso le mie foto a tanti relitti e a tutti coloro la cui vita ha ruotato attorno a quelle navi quando erano vive. E tantissime altre, di cui faccio un elenco accurato… Per esempio, aver sentito, costruendo modelli di chiese antiche in legno, il filo diretto con i costruttori degli originali.
Ho deciso, nonostante sia un altro mio sogno di sempre, di non andare a doppiare il Capo Horn a vela su una delle barche che lo fanno come charter: non ho più l’età, ci vuole troppo tempo per aspettare la meteo giusta, e sapere che rischio di esserci con mal di mare renderebbe stupida l’impresa (molto cara, del resto). So bene che ci vuole tempo per riprendere il piede marino, e arrivare a Ushuaia dopo mezzo giro del mondo non mi metterebbe nelle condizioni fisiche adatte. D’altro canto, andarci in aereo (con una avioneta da Ushuaia) non ha interesse.
Mi sono sforzato oggi di tornare alla vita di bordo: sono stato seduto in cuccetta per un’ora, per migliorare la pressione e l’equilibrio. Ho assistito alla cena degli altri, ma senza prendervi parte. Mangiato una fetta di torta: ho bisogno di zuccheri.
Jerôme ha riparato, smontandolo interamente, il nostro gabinetto: un’impresa, con questo mare, condita da commenti evidenti... Ma io continuo ad usare il gabinetto a poppa perché è più user-friendly: ci si tiene meglio quando si è seduti, ci sono maniglie per tenersi dopo, è più grande di quello di prua. Tuttavia, il percorso per arrivare al gabinetto a poppa è molto più lungo, più impegnativo a causa di due scalini, e farlo senza luce (per non disturbare il timoniere: anzi: colui che in pratica si limita a sorvegliare il pilota automatico e il radar) è arduo, anche perché gli appigli per tenersi sono rari. Uso la lampada frontale solo al termine del percorso, quando non disturbo il timoniere.
Ore 20.00: mancano ancora 340 miglia a Stanley; teoricamente 43 ore!
Di notte si vedono bene le stelle dal boccaporto senza oscuramento.
Incubo (da Xamamina): ceno con mio padre, mia madre e mia sorella. Quest’ultima attendeva una telefonata dall’allora suo fidanzato (che poi è diventato suo marito). Il nostro tavolo, da bridge, è apparecchiato su un’altana; faccio la bruschetta con un toast, ma macchio la tovaglia. Ci serve una cameriera sconosciuta. Dalla finestra aperta entrano una decina di zanzaroni (deve essere un richiamo all’epidemia da zanzara Zika che imperversa in Brasile) pelosi, duri, grandi 20 cm, con un rumore fortissimo (trattasi evidentemente del rumore del motore della barca attutito dalla cera). Non riesco ad ammazzarli neanche cercando di schiacciarli con una scarpa. I zanzaroni hanno la stessa faccia di certi personaggi di Hyeronimus Bosch (in particolare quello che è appollaiato sulle braccia, con il tronco tagliato a metà). Chi sa se Bosch prendeva un prodotto medicinale o una droga che gli dava allucinazioni? Ho messo tanto tempo a ricordami che il pittore che avevo in mente era proprio Bosch. Ho dovuto fare 8 volte la sequenza completa delle lettere dell’alfabeto. In effetti, da “Bo…” non mi veniva in mente nulla. Forse perché spesso il cognome di questo artista è associato al suo nome di battesimo? L’immagine dell’incubo era così vivida che per non dimenticarla ho acceso la lampada frontale (sotto la coperta per non abbagliare chi era al timone) per annotare l’incubo. Mai più Xamamina!!!!!!!

Lunedì 8 febbraio 2016
Altri tre sogni, ma questa volta non collegati a mie esperienze dirette:
Sogno a: lavoro per i Servizi, ma non hanno né un ufficio né una scrivania da darmi.
Sogno b: i vetri blindati di un deposito di munizioni in Italia scoppiano a causa di un attentato, e i pochi soldati sopravvissuti scappano.
Sogno c: i fondi destinati dal Ministero degli Esteri alla costruzione di una nuova Ambasciata super protetta a Kabul (che ho a suo tempo ispezionato) giungono per errore al Consolato a Friburgo (CH). 
Barometro in calo: 1007. Temperatura in cabina: 15°.
Ore 11.00: ricambiamo ora, mettendoci a quella delle Falkland. Diventano le 08.00.
Barometro a 1005. Mangiato biscotti, torta e caffè. Sto un’ora in tuga. Vento da nord 18 nodi. Siamo a 8 nodi, con motore, ovviamente. Orziamo un po’, verso il nord delle Falkland, per soffrire meno quando domani arriverà il colpo di vento a 40 nodi.
Dovremmo arrivare il 9 nel pomeriggio. Velatura completa con due mani di terzaroli.
Me ne torno in cuccetta, Inutile sforzare l’organismo. Scrivo per due ore.
Ore 10.00 (cioè le vecchie 13.00): barometro a 1003. Jerôme mi porta un croque-monsieur in cuccetta.
Ore 15.30: barometro a 997: in 7,30 ore caduto di 8 punti. Mancano 160 miglia all’arrivo. Sto varie ore in timoneria. 10-15 nodi di vento da nord. Facciamo 9-10 nodi. Siamo in attesa del vento forte da ovest: speriamo di arrivare alle Falkland prima di lui. In cabina 19°. Visti tanti delfini ed albatros.
Ore 16.30: barometro a 996.
Ore 16.40: barometro a 995.
Mancano 115 miglia. Prendere o no Xamamina?
Ore 20.00: barometro a 994: meno 11 punti in 12 ore.
I genitori di Franck, medici in pensione, quindici anni fa hanno lasciato la Francia in barca a vela per un giro del mondo durato sette anni. Sono tornati e hanno divorziato. Che storia singolare!

Martedì 9 febbraio 2016
Svegliatomi alle 4.30. In timoneria dalle 4.30 alle 13.00, per tigna! Alle 07.00 caffè e biscotti. Alle 12.00 una fetta di pasticcio salato, per non appesantire lo stomaco. Alle 07.30 si alza il vento da ovest, in prua, come previsto. 25-30 nodi, cavi di tre metri. Facciamo 3,5-4 nodi. Il nostro arrivo a Stanley è quindi ritardato di almeno 4 ore.
Volevo godermi questo ultimo assaggio di Atlantico meridionale. Questo viaggio è giunto per me al momento opportuno della mia vita. Tuttavia, è emozionante come sempre l’attesa di vedere terra…. Questo viaggio è stato per me un’indimenticabile (mi è entrata nella pelle) esperienza emozionale, estetica, sensoriale, professionale, introspettiva, velistica. Ho apprezzato l’assenza di stimoli vani e distraenti. Ma ammetto che non sempre i pensieri sono profondi o seri.
Cerco di fare l’elenco di alcune incredibili innovazioni tecnologiche che hanno rivoluzionato la navigazione (escludendo la bussola, il log, il sestante, il cronometro, la motorizzazione, il vetro trasparente): il GPS, il radar, le carte meteo e la comprensione in anticipo dei fenomeni meteorologici, le carte digitali, il disco chiarovisore, il winch e gli argani elettrici, il profondimetro, il barometro, il vetro corazzato, l’anemometro, ecc.
La scelta del mio vestiario avrebbe potuto essere migliore: mi sono mancati ricambi di biancheria e colli alti. Per il resto OK.
Siamo partiti dalla Georgia il 4/2 alle 19.30. Dovremmo arrivare a Stanley il 9/2 alle 14.00. Sono 835 miglia. Ci dovremmo mettere 4 giorni e 18 ore; media di 7,19 nodi: ottima.
Arriviamo alle 14.00, al molo industriale. I tre inglesi sbarcano subito. Jerôme mi dirà dopo che hanno spinto il cattivo gusto al punto di annunciargli che, essendo arrivati in anticipo di un paio di giorni sulla tabella di marcia (cioè sui giorni per i quali avevano pagato) avrebbero detratto dal pagamento della crociera i giorni in questione!
Vado alla Casa del Marinaio, gestita da un missionario laico protestante, il Port Chaplain, e dalla moglie. Sono appena arrivati alle Falkland e sono qui per due anni. Erano già stati qui qualche anno fa, e quindi sanno cosa li aspetta. Offrono tè e caffè gratuiti, il resto a pagamento (minimo). Offrono anche 15 minuti di telefonata gratuita ai marinai dei pescherecci. C’è un biliardo, un ping-pong, e una nutrita libreria in inglese, francese, spagnolo, russo, tedesco, italiano, portoghese, ecc. Ci sono riviste, la TV, dei PC da cui possono parlare via Skype, docce perfette, vestiti usati gratis per i marinai, regalati dagli abitanti delle Falkland. Alle spese fanno fronte le donazioni provenienti da questa organizzazione estesa in tutto il mondo.

Mercoledì 10 febbraio 2016
Sveglio alle 5.30: devo avere ancora il vecchio orario in mente. Me la sono presa comoda. Dobbiamo spostare la barca perché il regolamento del molo esige che tutti portino il casco quando vanno a terra. Sbarco alle 09.00 con la mia biancheria sporca e per fare la doccia. La missione apre tuttavia solo alle 10.00. Piove, 7°, vento di almeno 20 nodi. Aspetto sotto un tettuccio davanti alla missione.
Aspettando fuori per un’ora sotto alla pioggia, chiacchiero con un senegalese ispanofono (non parla francese), imbarcato su una nave da pesca con un gruppo di suoi compagni anche essi in attesa. Tutti vengono alla missione per telefonare e per usare gratuitamente Internet.  Ha lavorato cinque anni in Italia (clandestino) come raccoglitore di pomodori a Napoli e Foggia, poi come venditore ambulante di occhiali, collanine, parei sulle spiagge in Adriatico e in Liguria. E’ andato via perché aveva troppi problemi con la Polizia. Nella nostra lunga chiacchierata rifacciamo il mondo, con speranza.
Il tempo cambia continuamente: solo il vento è costante: più di 20 nodi.
Faccio la doccia, finalmente: su una scala da 1 a 10, questa doccia vale 20!!!!!! Dopo, tazza di tè, chiacchierando con i gestori. La lavatrice industriale con la mia biancheria è avviata. Dopo, metteranno tutto nella asciugatrice.
Mentre sono alla doccia (mi raggiunge Franck) Golden Fleece si sposta fa molo industriale alla East Jetty, dove ci eravamo imbarcati. Fanno manovra da soli. Poi, il cappellano porta me e Franck all’agenzia di viaggio per le conferme dei nostri viaggi. Poi banca. Poi colazione (panini) alla tavola calda. Mentre ci muoviamo verso nord a piedi lungo la strada che costeggia la baia, Jerry (l’ex poliziotto che era a bordo con noi) ci incontra e ci porta in auto a vedere (e io a fotografare) i relitti di Lady Elisabeth, Samson, Plym, Gentoo, Golden Chance, e di due barche in legno spiaggiate. Il vento è molto forte. Questo è decisamente l’assignment più duro che io abbia mai vissuto! Poi in barca a rilassarmi e a cambiarmi: sono fradicio di sudore. Ho mal di schiena: la mia attrezzatura mi sembra sempre più pesante.
Alle 20.30 andiamo alla missione con l’auto di Jerôme a ritirare la mia biancheria alla missione. Era ora: ho finalmente un sacco pieno di roba pulita!

Giovedì 11 febbraio 2016
Sveglio alle 6.15. Dormito 8 ore. Sto riprendendo un ritmo normale. Ho tolto finalmente dalla cuccetta la plancia anti rollio. Ho ora la cuccetta intera.
Alle 8.30 Jerôme ci accompagna in auto, Franck e me, al relitto dello Jhelum. Poi torniamo a piedi verso la East Jetty e la nostra barca. Ufficio filatelico, museo: molto bello. Faccio tante foto fuori dal museo, in particolare lo sbovo (argano orizzontale in legno) della Charles Cooper, la cui prua è stata ritagliata (per salvarla e destinarla ad un museo americano) ma è rimasta in un deposito a pochi chilometri da Stanley. Continuando a camminare fotografo la Margaret: i suoi resti sono veramente deludenti. Per sbaglio mi cade la Hasselblad tascabile dalla tasca della giacca di incerata e la pesto, purtroppo il vetro del visore viene inciso dai sassolini che sono per terra. Bravo! Ma continua a funzionare benissimo. A Todi ho e uso la Hasselblad acquistata nel 1976 e munita di dorso digitale: ha 40 anni! Successivamente acquisto una carta molto grande, arrotolata, che indica tutte le navi di cui si ha notizia del naufragio alle Falkland. Me la spedisco a Todi, chiedendo in regalo un tubo al Design Office del Governatorato delle Falkland (la carta arriva sana il 1/3/2016). Fotografo altresì la sezione di maestra dell’albero di mezzana della Great Britain, disegnata da Brunel, rimpatriata su una chiatta nel 1970, rimessa a posto (un po’ come il Cutty Sark): trattasi di un’altra gloria nazionale per gli inglesi. Mangiamo fuori in T-shirt al sole davanti ad un ristorante indiano: pollo al curry e birra. Poi compriamo al supermercato 4 bottiglie di superalcolici forti buoni da regalare a Jerome. All’Info Point incontro una coppia: Francesco e Marie Clotilde Rospigliosi, di Milano, lui italiano lei francese. Conoscono mia sorella Anne-Sophie; sono andate a Lourdes insieme. Chiacchieriamo per un’ora. Sono in barca a vela da alcuni anni. Stanno partendo verso il Sud America. Molto simpatici. In barca mi rilasso con una birra. Fotografo una nave - l’Egeria – incorporata nella East Jetty: sempre la cattiva abitudine dei falklandesi di incorporare i relitti nei moli… Mi piacciono soprattutto i resti del suo fasciame. La sera Martin voleva invitarci a cena, ma non ha trovato posto nei due ristoranti accettabili di Stanley. Quindi porta lui gli steaks e un dolce fatto da lui.

Venerdì 12 febbraio 2016
Visita a bordo dei due Rospigliosi affascinati da Jerôme. Si fanno fotografare con lui. Poi salpano verso il Sud America. Passo due ore per trovare un’auto, con o senza autista, per andare a Goose Green e a Darwin Harbour per fotografare due relitti. Troppo caro: rinuncio.
Colazione con enormi ricci appena pescati dai nostri subacquei.
Alle 14.00 gli altri vanno a pesca di molluschi da mangiare. Mi faccio lasciare dall’auto dove avevo visto un relitto in terra: si tratta della prua della Charles Cooper! Ne avevo visto lo sbovo (argano orizzontale) al museo. L’accesso al relitto è proibito ma ci vado lo stesso. Caldo: 15°. Torno a piedi e fotografo Golden Chance a Canache, Gentoo e Afterglow. Torno alle 17.00 distrutto dal peso e dal vento.
Ho fotografato in totale in questo mese di viaggio 36 relitti: navi, imbarcazioni, scialuppe, resti di relitti.
Visita del comandante proprietario neozelandese di Braveheart, ex peschereccio giapponese di 50 metri riconvertito ed utilizzato per charter in emisfero sud. Ha perso tutti i denti davanti. Di professione era mercante di ferraglia. È in giro da 8 mesi. A bordo 20 radioamatori che vanno in posti spersi per tentare comunicazioni e registrare il numero delle comunicazioni ottenute con altri radioamatori di tutto il mondo. Pagano metà della spesa del viaggio. L’altra metà è a carico dei produttori di materiale elettronico.
Cena a bordo con conchiglie “Violet”: grossi molluschi grandi come pomodorini San Marzano, e pesce.
Poi visita a bordo di Braveheart. Equipaggio fatto di birra e altro…. Il cuoco è a bordo da 5 anni e sembra, con una coperta legata alla vita e la testa che passa attraverso un buco, un personaggio shakespeariano. Sono stati a Husvik il 7/2 (dove noi eravamo stati il 27/1). Li ha presi un colpo di vento di 90 nodi almeno. Lo yacht neozelandese Winderella, che avevamo incontrato il 23/1 a Prince Olav Harbour, era in grossa difficoltà. La sua ancora non teneva, è andato sugli scogli che gli hanno fatto un buco in chiglia, per fortuna sopra linea di galleggiamento. La moglie dello skipper di Winderella, terrorizzata, voleva andare a bordo di Braveheart. Nonostante i 90 nodi di vento lo skipper di Braveheart ha messo in mare un grosso Zodiac ma non ce l’ha fatta ad arrivare a Winderella. Ha rinunciato, dato che i due non erano ancora in pericolo di vita. Nel frattempo 4 radio amatori del Braveheart (che facevano le loro brave trasmissioni di prova) erano a terra distesi sopra la tenda strappata, tentando di resistere finché le condizioni del vento avrebbero permesso di riportarli a bordo. Le loro antenne divelte. L’ancora di Braveheart arava. Ne ha calato una seconda, che si è attorcigliata alla prima. Due ore per districare il tutto, complicato da camionate di kelp che risale con le catene. E sì che l’equipaggio è formato di australiani cazzutissimi. Di tutto quanto precede viste tante foto e filmati. Impressionantissimo. Dopo 3 ore era tutto tranquillo, ci dicono. Dopo aver chiacchierato a lungo su Braveheart (io buttando fuori bordo - come spesso fatto nella mia vita in URSS, Russia, Balcani - almeno quattro metà di lattine di birra, accettate per non offenderli), andiamo al pub.
Altra birra. Vi incontro una ricercatrice universitaria di Frosinone specializzata in albatros, che opera per conto di un’Università portoghese. Lavora a New Island, sola o con altri due, e vi passa anche uno o due mesi senza vedere nessuno. Ha collegamento Internet. La mattina esce dal suo rifugio, va nella colonia degli albatros, mette loro (o toglie) gli anelli con il GPS, li studia, nel pomeriggio torna nel rifugio e scrive su quello che ha riscontrato. Non la riconoscono, ma accettano la sua presenza.
Tornando leggo a Jerôme l’articolo su di lui che ho proposto alla rivista Arte Navale per il numero di aprile/maggio 2016. Concorda sul testo.
Eccolo:

Il titolo proposto è “Jérôme, libero e ostinato”.
Il sottotitolo: “Non chi comincia, ma quel che persevera “(Leonardo da Vinci, motto di Nave Vespucci).
Non avrei immaginato, 50 anni fa, di scrivere su Jérôme Poncet, conoscendone le vicende fin da allora: sto navigando con lui un mese a bordo di Golden Fleece, alle Isole Falkland e in Georgia del Sud.
Nato a Grenoble nel 1946, otto anni di collegio militare quale figlio di ufficiale e professore, Jérôme lascia presto la famiglia per costruire Damien (10 metri) con Gérard Janichon: dal 1969 al 1973, è il primo yacht a toccare lo Spitzberg e a compiere il giro del mondo circumnavigando l’Antartico oltre il Circolo Polare. Dal 1974 al 1987, a bordo di Damien II - 15 metri, capostipite di una serie di notevole successo commerciale – naviga con sua moglie Sally, biologa australiana, e i loro tre figli; il primo, Dion, nasce in una baia della Georgia con il padre quale levatrice. Suo il record di “ibernaggio” nell´emisfero australe, a 68° Sud. Jérôme è stato anche il primo a fare surf in Antartico, nel 2000. La sua smania di libertà è un vizio di famiglia: nel 1851, Ambroise e Jérôme Poncet – nativi di Saint Jean de Maurienne, in Savoia – accompagnarono lo zio in Egitto e, dovendo sopravvivere da soli dopo l´omicidio di quest´ultimo ad opera degli indigeni, se la cavarono nel deserto e nella savana, a 19 e a 16 anni.
Poncet partecipa a numerose corse transatlantiche dal 1973 al 1981 quale skipper di Giorgio Falck, fino allo speronamento ad opera di un´orca in Atlantico, all’affondamento di Guia ed al salvataggio 18 ore dopo grazie ad un mercantile casualmente di passaggio.
Nel 1983 compra l´isola di Beaver all´estremità sud occidentale delle Falkland, dove da allora passa l´inverno; possiede renne, cresce 250 pecore - le tosa, le scuoia e le macella -, pesca ed è autosufficiente anche per la manutenzione delle sue barche. Ha la televisione da soli due anni. Fa uso riluttante di Internet, e solo se indispensabile per la navigazione e per venire incontro alle richieste dei suoi clienti. Ha il diploma di pompiere: i monomotori possono quindi atterrare sulla pista di Beaver. Ha deciso in quale punto del cimitero della sua isola vuole essere sepolto, e in quale direzione.
Dal 1997 fa charter con il suo ketch in acciaio di 20 metri Golden Fleece (Toson d´Oro) costruito in Canada nel 1985; il nome è ereditato da un`antica barca da lavoro regalatagli negli anni `80, affidata ad un cantiere locale per consentirle di navigare, ma affondata durante un trasferimento al traino. Con sua moglie ha svolto ricerche sulla fauna dell´Antartico, organizzando spedizioni scientifiche e fotografiche. E’ da qualche anno cittadino inglese, ed è stato appena insignito dalla Regina Elisabetta II della prestigiosa Polar Medal - primo yachtsman a riceverla - per i suoi sforzi pioneristici a sostegno della scienza polare e della documentazione naturalistica. L`isola di Poncet Island gli è stata intitolata sulla costa sud occidentale della Georgia.
Jérôme ha ospitato a bordo personaggi diversissimi, di tutti i paesi e di tutte le età: da Salgado alle troupes della BBC e del National Geographic Magazine, ai ricercatori universitari, dalla gente di mare ai terrestri. Tutti incuriositi o affascinati dall`Antartico. Ha visto nascere e affievolirsi a bordo amicizie e amori: cinque coppie di suoi ex dipendenti navigano ora intorno al mondo. Conosce tutti coloro che navigano a vela nell`estremo emisfero sud da cinquanta anni.
Il suo carattere “franco e cameratesco”, talvolta burbero, è ben noto… Ma riesce comunque a fare sentire tutti a proprio agio, e Golden Fleece è la barca dove si mangia meglio a Sud del 52° parallelo: spaghetti (veri, in mio onore, non le nouilles), gratin dauphinois, pâté, arrosti e fonduta bourguignonne di renna, guance di merluzzo nero, soufflé al krill, banane flambées….
In navigazione, il nostro è il contrario di un insegnante di scuola di vela: accentratore assoluto, smozzica poche parole, agisce istintivamente e senza preavviso, non si cura di spiegare né prima né dopo. Tuttavia, al contrario di un solitario, è avido di imparare dagli altri e di conoscere. Nonostante 50 anni passati nelle acque antartiche, è informato degli avvenimenti nel mondo ed ha un´abbondantissima biblioteca. Conosce tutto sulla vita a queste latitudini, la fauna, i “grandi mostri marini”, la pesca alla balena e la caccia alle foche, i relitti. Si irrita se taluni suoi ospiti si tuffano nei loro pc e nella verifica quotidiana delle foto scattate: sono colpevoli di non lasciarsi conquistare dal Genius Loci dell`Antartico... E’ geloso e fiero della “sua” Georgia, e si dispiace se un passeggero non approfitta di ogni singolo minuto in un luogo…. Sorpresa: Jérôme soffre talvolta di mal di mare (come quasi tutti): prende una pillola e continua. Soffre di poliartrite reumatoide, e dovrà farsi operare. Ha smesso di fumare, dopo decenni di Gauloises. Non beve in navigazione.
Con il suo primo figlio, Dion - ora skipper in Antartico di un’antica motobarca norvegese – Jérôme ha trasportato nel 2002, costruendo una stalla coperta sul Golden Fleece, trenta cuccioli di renna dalla Georgia a Beaver (1.000 miglia). Jérôme e Dion si incontreranno nella Penisola Antartica a marzo 2016, con i rispettivi passeggeri: sarà l’ultima crociera per Jérôme, con un gruppo di sciatori.  Il suo secondo figlio Leif, trentenne – dopo aver fatto un giro del mondo in solitario a vela e circumnavigato la Tasmania e la Georgia del Sud in kajak – sta lasciando le Falkland per doppiare il Capo Horn da est e risalire il Pacifico verso le Aleutine.
Poncet conosce a menadito i limiti della sua barca e la latitudine concessagli dall’ambiente: passa in mezzo a rocce affioranti, e sfiora iceberg e ghiacciai badando sia allo zoccolo che al rischio di crolli. Grazie alla sua memoria fenomenale, non c`è baia, isola o passaggio di cui non ricordi conformazione, profondità, venti dominanti, approdi, anche per averli utilizzati nei suoi censimenti di pinguini o uccelli. Lascia serenamente Golden Fleece arenarsi su fondi sabbiosi a marea quasi bassa, consapevole che dopo pochi minuti la barca sarà di nuovo sulla via. Sa che a bordo del tre alberi Bayard (arenato da cento anni a Ocean Harbour) vi sono pesci nella stiva allagata, pronti ad essere pescati dalla coperta gremita di cormorani irritati. E’ membro della International Association of Antartica Tour Operators.
Jérôme contesta le restrizioni imposte dal Governo della Georgia: 200 metri di interdizione intorno alle ex stazioni baleniere (a causa dell`amianto presente nelle strutture) e divieto di approdo in molte colonie di uccelli e mammiferi, nonché sull`intera costa sud occidentale. Ma sa bene che un eventuale ingresso di Golden Fleece nelle aree proibite metterebbe a rischio la sua licenza permanente (concessa a pochi) di recarsi in Georgia. Riconosce peraltro che talune restrizioni sono necessarie nel caso delle navi da crociera che portano più di 15.000 passeggeri l´anno nell´isola. Il suo rispetto per il lavoro dell`uomo in questi climi lo mette in sintonia con la vita dura dei balenieri norvegesi che hanno operato in Georgia, ma se gli si parla delle 175.000 balene e 260.000 foche da loro uccise e sfruttate industrialmente dal 1909 al 1965, diventa peggio di un`orca inferocita.
Gli altri skipper antartici riconoscono a Jérôme una primazia di esperienza e di comportamento. La Polar Medal attribuitagli dal Regno Unito, nonostante il suo carattere contestatario e il tipico approccio francese “gouailleur”, dissacratore e contrario a qualunque limite alla libertà, ne è la prova. Buon vento a Jérôme, quando lascerà l’anno prossimo la Convergenza Antartica per i mari caldi del Pacifico, con parmigiano e prosciutto di Parma, augurandogli di non subire i 70 nodi che ha voluto riservarmi…

 Sono a letto alle 23.00

Sabato 13 febbraio 2016
Sveglio alle 6.30. Pioggia e freddo. Lascio a bordo stivali, chaussons, saponi, crema solare. Faccio i borsoni. 12.00 partenza dalla barca in minibus alla volta dell’aeroporto. 13.00 aeroporto militare: controllo di identità all’ingresso. 14.30 a bordo dell’aereo, essendomi munito di due panini: non danno nulla a bordo e lo sapevo.
La mia incerata e il giubbetto di piumino puzzano di mangiare: tutte le incerate erano appese in tuga, da dove usciva il fumo della cucina…. 18.00 Punta Arenas. 22.30 Santiago del Chile: Holiday Inn. Cena con Franck: ceviche e birra. Poi seconda più bella doccia della mia vita dopo quella del 10/2!

Domenica 14 febbraio 2016
Dormito fino alle 07.00. Battuto e stampato sul pc dell’albergo il bilancio che ho scritto su di me. Sono all’aeroporto. Scopro che il volo che prenderò e che passa da San Paolo del Brasile continua su Milano. Che fregatura. Mi sarei evitato il passaggio da Londra. Ma avrei speso di più. Riesco ad imbarcare in stiva un eccesso di bagaglio di 27 kg senza pagare supplemento. Non ho mai usato tanto capitale di charme ai check-in come in questo viaggio. 
Mi viene in mente, aspettando in aeroporto: un bambino passa sotto i divisori piazzati per incanalare la gente (negli aeroporti, per esempio) perché è più basso, e quindi non si accorge neanche che vi è un “divieto” o una consuetudine. Il segreto: diventare noi così “piccoli” da saper passare sotto i divisori della vita (a condizione di non infrangere divieti o recare molestia agli altri).
Volo Santiago – San Paolo: vedo “Spectre” di James Bond e “The Walk”, storia di Philippe Petit, che il 6/8/1974 su un cavo teso passò da una Torre all’altra delle Torri gemelle a NY. Bella storia: era la sua passione. Ben Kingsley suo maestro acrobata (slovacco in realtà). Ci credeva e ne aveva bisogno. E’ riuscito a trovare il giusto frame of mind, come me per andare alle Falkland e in Georgia del Sud. Ma lui si giocava la vita. Ed è morto da poco, facendo quello che gli piaceva. Comprato a San Paolo pomata anti zanzara Zika. Mi hanno fatto problemi al controllo sicurezza per il sacchetto di pietre di ematite: perché? Strumento offensivo? Contrabbando? Tentativo di smerciarle in Brasile? Mostrato ricevuta d’acquisto e ottenuto un OK riluttante dall’addetto al controllo. Chi sa cosa aveva in mente?
Volo San Paolo – Londra: 11 ore e 20…. Visti 4 film: Black Mass, Our Brand is Crisis, Pawn Sacrifice (storia dello scacchista Bobby Fischer), Sicario. Comprato il libro The Martian al ritorno, a San Paolo.
Londra – Fiumicino
Fiumicino – Perugia. Mildred e Joey all’aeroporto.
Doccia sontuosa. Nulla da mangiare a casa (che era calda, per fortuna): mangiato gelato.

Conclusioni:

  • Non ho usato nessuna medicina (a parte Voltaren, Imodium, Arnica) in tutto il viaggio. Sono dimagrito di almeno tre kg.
  • Sono stato molto felice di vedere che lo spirito che può unire in barca persone diversissime - me compreso - esiste ora come è esistito per me cinquant’anni fa, senza attenuazioni. E’ del resto lo stesso che ho ritrovato presso tanti Alpini, quando ho cominciato a frequentarli qualche anno fa.
  • La Bibbia è stato l’unico libro che mi sono portato in viaggio.
  • Sono arrivato alle Falkland e in Georgia del sud con venti anni di ritardo. Vent’anni fa diversi relitti da me fotografati erano ancora interi. Alcuni sono completamente scomparsi, e figurano solo più nei libri tecnici. Del resto, anche in Namibia ero arrivato in ritardo, di almeno vent’anni…
  • Sono stato molto fortunato di vivere il mio sogno, in condizioni ambientali e meteorologiche accettabili, e senza farmi male.

Alcune espressioni di Bernard Moitessier che mi hanno colpito (“Tamata et l’Alliance”)

  • Voir, faire, transmettre.
  • Puiser au fond de ses tripes et de sa conscience ; ne rendre compte qu’à soi-même.
  • De toute manière, chacun est seul pour creuser. Et la forme de la pelle a bien moins d’importance que la Pensée, la Sueur et la Foi avec lesquelles chacun de nous fera son trou pour y chercher la vérité.
  • Pensée, Sueur et Foi nécessaires pour que se fasse l’union de la terre et du ciel dans le cœur de l’homme.
  • Cette vie reconquise dans un éclair de lucidité.
  • Le monde est plein de gens qui rêvent en comptant leur piastres, sans regarder ce qu’il y a de l’autre côté. Ils en veulent toujours davantage. Sans voir que le piège se referme sur eux et sur leurs piastres. Et à force d’avoir eu peur des vaches maigres, ils finissent par se faire dévorer par les vaches grasses.
  • L’histoire de la grenouille dans une casserole d’eau tiède, qui ne s’est pas aperçue que l’eau chauffait…
  • Aimer c’est regarder ensemble dans la même direction.
  • Avoir les trous en face des yeux.
  • La routine est notre pire ennemi parce qu’elle approche à pas de velours et sans lever la moindre vague pour mieux vous piéger dans ses mailles (Phil, Ein Kerem, Israele ; citato da Moitessier).

 

Appendici

  • Elementi sulla caccia alle foche e della pesca alle balene

(Tratti dal volume di Ian B. Hart “Pesca” del 2004)

Dal 1904 al 1965 175.250 balene sono state catturate in Georgia del Sud, di cui:

  • 41.515 Blue                 Balenoptera musculus
  • 87.555 Fin                   Balenoptera physalus
  • 26.754 Humpback       Megaptera novaeangliae
  • 15.128 Sei                   Balenoptera borealis
  • 3.716   Sperm              Physeter macrocephalus
  • 577      Right                Balaena australis

Di queste 175.250 balene, 54.473 sono state lavorate a Grytviken (capitale della Georgia del Sud) con la produzione di 2.767.456 barili di olio, pari a 455.020 tonnellate di olio. Inoltre, sono state prodotte 195.315 tonnellate di carne. La cattura di balene svolta dall’azienda argentina “Pesca” (proprietà norvegese) rappresenta solo il 3,85% del totale della cattura di balene in Antartico dal 1904 al 1978.
Dal 1904 al 1965 260.950 foche sono state uccise e trattate a Grytviken.

  • Elementi sulle basi in Georgia del Sud

(Tratti dal volume di Ian B. Hart “Pesca” del 2004)

Le navi ancora visibili che hanno operato in Georgia del Sud per la caccia alle foche sono le seguenti:

  • Albatros 1922-1964 (per la caccia alle foche solo dopo il 1935)
  • Dias dal 1927 al 1964 (solo caccia alle foche)
  • Petrel dal 1957 al 1964.

Siti e periodi di operazione delle basi delle compagnie impegnate nella pesca alla balena dal 1904 al 1966:

  • Grytviken                   1904 – 1964
  • Stromness                  1906 – 1961
  • Husvik                       1907 – 1961
  • Godthul                      1908 – 1929 (utilizzata solo come base a terra per le navi fattorie)
  • Leith Harbour            1909 – 1966
  • New Fortuna Bay      1909 – 1920 (in seguito: Ocean Harbour)
  • Prince Olav Harbour 1911 – 1931

(raccolti su numerosi libri, pubblicazioni, siti, e elencati nell’ordine in cui sono stati da me fotografati)

Relitti in Georgia del Sud

  • Brutus: Tre alberi a scafo metallico, costruito nel 1883 presso il cantiere J. Reid & Co of Glasgow. Lunghezza 75, 9 m., 1.686 tonnellate lorde. Inizialmente battezzato Sierra Pedrosa (il nome può essere ancora intravisto sullo scafo), durante il suo servizio presso la Sierra Shipping Line di Lima. Il 30 luglio 1889, all’ancora a Table Bay, Sud Africa, la catena dell’ancora si ruppe e andò in costa a Salt River Beach. Rimessa in galleggiamento, e ribattezzata Brutus, fu venduta nel 1902 all’armatore J.S. Ritchie di Dundee. Partita da Londra, andò nuovamente in costa esattamente nello stesso punto a Table Bay! Questa volta le sue ancore avevano arato, in quella che è stata definita la “grande tempesta del 1902”. Nuovamente rimessa in acqua, la sua carriera navigante era finita. Venne utilizzata come deposito di carbone e petrolio a Table Bay, quindi a Walvis Bay come deposito di olio di balena. Durante la Prima guerra mondiale ospitò le famiglie dei maschi di Walvis che erano stati presi prigionieri dai tedeschi. Arrivò nel 1918 a Prince Olav Harbour da Cape Town al traino di 2 (o 4?) baleniere (Truls e Traveller) per essere utilizzata come carboniera, ormeggiata lungo il molo a Pig Point. Qualche tempo dopo la chiusura della stazione baleniera, nel 1934 Brutus ruppe gli ormeggi e andò in terra in una baia vicina. Conserva il tronco maggiore dell’albero di trinchetto. L’isola Brutus Island prende il nome dal Brutus.
  • Baleniera affondata a Jericho/Leith Harbour: è visibile solo la coffa di una baleniera; faceva verosimilmente parte delle sopravvissute del gruppo di baleniere della Christian Salvesen & Co. e di altre compagnie di pesca (Swona, Semla, Snore, Shoma, Septa, Stina, Stora, Sorsra, Sabra, Simbra, Solvra, Sondra, Sobkra, Sigfra, Sousa, Saima) che cessarono la loro attività al momento in cui la caccia alla balena fu proibita nel 1965, e le stazioni abbandonate. Nella fattispecie, la neve abbondante caduta nell’inverno 1964 provocò l’affondamento a Leith Harbour di sette scafi: Solvra, Sondra, Sorsra, Sabra, Bouvet I, Southern Peter, Southern Paul. La coffa appartiene verosimilmente ad una di esse.
  • Numerose scialuppe e rimorchiatori sono ancora visibili presso le stazioni baleniere di Leith Harbour e di Stromness. Erano utilizzate per trainare le balene ai piani inclinati dove venivano squartate.
  • Eliche a Stromness, dove a suo tempo era in funzione un cantiere per le riparazioni delle baleniere.
  • Karrakatta: Baleniera costruita dal cantiere Akers Makanisk Vaerksted, Christiania, (ora Oslo) nel 1912 per la West Australian Whaling Comp. (Karrakatta è un sobborgo di Perth, Australia occidentale, ed è un nome tipico aborigeno). Lunghezza 32 metri, 179 tonnellate lorde. Il motore produceva 69 HP. Issata sullo scivolo a Husvik, è praticamente intatta.  Utilizzata dalla compagnia A/S Spermacet per pescare balene per la nave fattoria Vasco de Gama al largo di Shark Bay. Dopo essere tornata in Norvegia, ed essere stata venduta alla A/S Ocean, giunse in Georgia del Sud nel 1016, operando da New Fortuna Bay (ora Ocean Harbour). Nel 1925 tornò in Norvegia, quindi in Antartico per lavorare come baleniera d’altura per l’azienda di C.A. Larsen. Fu ribattezzata Star III, venduta alla Falkland Whaling Company in 1929 e di nuovo ribattezzata: Polar 4. Finalmente, fu venduta alla A/S Tonsbergs Hvalfangeri, che gestiva la stazione baleniera a Husvik.   E’ stata usata da ultimo come caldaia: un tubo isolato usciva dallo scafo vicino al cilindro del cavo per le balene, e il vapore veniva utilizzato in un’officina. Uno scivolo adiacente permetteva ad altre navi di essere riparate. La sua caldaia rimase a vapore. Un’apertura nello scafo permetteva l’accesso alla caldaia. La sua campana è a King Edward Point, appesa all’asta della bandiera.
  • Scialuppa di salvataggio della Southern Foster a Jumbo Cove. Le baleniere d’altura Southern Harvester, Southern Guider, Southern Opal, Southern Sky, Southern Wave, Southern Peter, Southern Paul, Southern Shore, Southern Star, Southern Chief, Southern Flyer, Southern Hunter, Southern Queen, Southern Spray e Southern Venture furono utilizzate nelle acque circostanti la Georgia del Sud. La Southern Foster affondò nel 1964.
  • Moresko N. 1: Peschereccio d’altura coreano costruito in Corea nel 1975, lungo 52 metri; 329 tonnellate; numero IMO 7418050; ruppe gli ormeggi durante una tempesta di forza 10/12 il 30 aprile 2003 davanti a King Edward Cove, danneggiato dagli scogli all’ingresso di Moraine Fjord. L’equipaggio fu salvato. Buona parte del combustibile e del materiale da pesca fu salvato.
  • Lynn: Peschereccio d’altura inglese costruito nel 1973 in Belgio, lungo 59 metri, 1.041 tonnellate; numero IMO 7320643; ruppe gli ormeggi durante una tempesta di forza 10/12 il 30 aprile 2003 davanti a King Edward Cove, danneggiato dagli scogli all’ingresso di Moraine Fjord. L’equipaggio fu salvato. Buona parte del combustibile e del materiale da pesca fu salvato.
  • Petrel: Baleniera, 245 tonnellate lorde, 80 tonnellate nette, 115x23x13 piedi (35 metri). Varata nel settembre 1928 presso il cantiere Nylands Mekaniske Vaerksted, Oslo, calata n. 293, per la Cia Argentina de Pesca SA. Il motore a vapore a triplice espansione a 3 cilindri (13.75”, 22” e 37,5 -24”), costruito da Nylands Mekaniske Vaerksted Oslo, produceva 810 IHP, 69 NHP. Velocità: 11 nodi. Dal 1946 al 1947 fu ceduta in affitto alla United Whalers Ltd per 2.000 sterline e utilizzata nella pesca d’altura alla balena in Antartico. Fu una delle prime baleniere equipaggiate con la passerella del cannoniere. Nel luglio 1947 fu affondata dalla neve a Sauodden, Georgia. Fu recuperata e nel 1957 trasformata per la caccia alle foche. Nel 1960 fu trasferita alla Albion Star (SG) Ltd e registrata a Port Stanley, Isole Falkland. Nel 1979 fu venduta alla Chr. Salvesen. Abbandonata a Grytviken e spiaggiata nel 2004.
  • Numerose scialuppe e rimorchiatori sono ancora visibili presso la stazione baleniera di Grytviken. Erano utilizzate per trainare le balene ai piani inclinati dove venivano squartate.
  • Dias: Nave per la caccia alle foche. 167 tonnellate lorde, 63 tonnellate nette, 108x21x11 piedi (33 metri). Numero ON (UK) 123229. Varata nel febbraio 1906 presso il cantiere Cook, Welton and Gemmel, Beverley, vicino a Hull, calata n. 96, con il nome Viola (H868) per l’armatore Hellyers Steam Fishing Co Ltd, Hull, messa in funzione come peschereccio a vapore. Faceva parte della flotta dei “Boxing Trawlers”, così soprannominati perché, lavorando sul Dogger Bank, stavano in mare per un mese o più e inviavano la pesca a Londra ogni giorno in cassette recate da corvette veloci a vapore. Il motore a vapore a triplice espansione a 3 cilindri (10”, 16.25” e 27-24”), costruito da Amos and Smith, Hull, produceva 45 NHP. Velocità 9,5 nodi. Nel settembre 1914 fu requisita dalla Royal Navy come posamine n. FY614, ribattezzata Viola III, e armata con un cannoncino. Fu uno dei primi vascelli a portare cariche di profondità. Nel 1918 restituita ai proprietari. Nel 1918 venduta a W.A. Massey & Sons Ltd, Hull. Nel 1919 venduta a L. Thorsen, Norway, ribattezzata Kapduen, nel 1920 a A/S Sandefjird Trawlfiskeselskap (AH Andersen, manager), nel 1923 a A/S Bas II. Trasformata in baleniera. Nel 1924 venduta a A/S South Atlantic Tonsberg e ribattezzata Dias. Pratica la pesca alla balena al largo del Gabon. Nel 1927 venduta alla Cia Argentina de Pesca SA tramite L. Klaveness A/S. Trasformata in nave per la caccia alle foche e in nave boa per tirare le carcasse delle balene. Venne anche utilizzata per portare del carico a Orcadas, e nel 1941-1942 la stazione meteorologica argentina a Laurie Island, Orcadi del Sud, e in occasione di spedizioni sulla costa della Georgia del Sud. Nel 1956 trasformata con alimentazione a gasolio. Nel 1960 venduta a Albion Star (SG) Ltd e registrata a Port Stanley (Falkland Islands). Abbandonata nel 1965. Nel 1974 affonda all’ormeggio a Grytviken. Nel 1979 venduta a Chr. Salvesen. Nel 2004 spiaggiata a Grytviken.
  • Albatros: Baleniera, 210 tonnellate lorde, 112 tonnellate nette; varata nel dicembre 1921 dal cantiere navale Boker?ens Skibsbyggeri Sevlik, per la Cia Argentina de Pesca SA. 107x21x13 piedi (lunghezza 32 metri). Il motore a vapore a triplice espansione a 3 cilindri (13.5”, 22” e 37-24”), costruito dalla Bergens Mekaniske Vaerksted Bergen, produceva 600 IHP, 67 NHP. Trasformata in nave a combustibile liquido nel 1929. Nel 1960 la proprietà fu trasferita alla Albion Star (SG) Ltd, registrata a Port Stanley, Falkland Islands. Trasformata nel 1935 per la caccia alle foche. Nel 1965 abbandonata a Grytviken. Nel 1975 affonda all’ormeggio a Grytviken. Nel 1979 fu venduta all’armatore Chr. Salvesen. Nel 2004 spiaggiata a Grytviken.
  • Louise: Tre alberi in legno; lunghezza 52 metri, 1.065 tonnellate lorde, 2 ponti; varata in ottobre 1869 dal cantiere Charles Bliss & Co, Freeport, Maine, con il nome Jennie S. Barker. Il suo disegno ha origine dai clipper; era conosciuta come il più bello “Down Easter” (il Maine è noto come “Down East State”). Venduta nel 1879 ad un armatore tedesco di Amburgo e ribattezzata Louise. Nel 1880 venduta all’armatore Ole Nielsen Gogstadt, junior, a Sandefjord per 90.000 corone norvegesi e utilizzata per il trasporto di legname nel Baltico (donde le sue quattro aperture nella prua per caricare tronchi lunghi). Nel maggio 1897 lo scafo fu ricoperto di rame. Nel 1904 fu venduta alla Cia Argentina de Pesca SA. Nel 1904, dopo aver trasportato 65 uomini e materiali alla prima stazione baleniera, a Grytviken, funse da alloggio in attesa del completamento dei capannoni. Fu una delle prime navi dell’armatore C.A. Larsen ad arrivare a King Edward Cove il 16/11/1904, dove si arenò nel lato meridionale. Disarmata poco dopo il 1904, fu usata come deposito di carbone fino agli anni 20’. Da allora rimase a Grytviken. Nel dicembre 1987 bruciò a causa di un errore dell’Esercito britannico durante un’esercitazione a fuoco. Accanto a Louise è sulla spiaggia una scialuppa/rimorchiatore, sorretta da montanti verticali in ferro.
  • Fenix: mezzo da sbarco argentino a King Edward Point, accanto alla stazione del British Antarctic Survey; lungo 16 metri; apparteneva alla nave argentina Bahia Buen Suceso; forse l’unico mezzo navale rimasto a testimonianza della Guerra del 1982, dipinto in rosso.
  • Waterboat: Scialuppe a Godthul, utilizzate per portare acqua dolce alle navi fattoria (portavano circa 20 tonnellate di acqua); ora in via di disintegrazione, adagiate nel tusssock, riparo di foche e elefanti di mare
  • Bayard: tre alberi a scafo metallico rivettato, costruito nel 1864 presso il cantiere T. Vernon & Son di Liverpool; lunghezza 67 m, 1.380 tonnellate lorde. Nel 1868 fu venduta alla Sun Shipping Company di Liverpool, nel 1881 alla Foley & Company, nel 1898 alla A/S Fjord in Norvegia e successivamente alla A/S Ocean. Nel 1909 partecipò alla messa in opera della stazione baleniera di New Fortuna Bay, ora chiamata Ocean Harbour. Il 6 giugno 1911, essendo ormeggiata al molo carboniero sul lato nord della baia, una forte tempesta la strappò dall’ormeggio e la portò attraverso la rada, dove lo scafo fu danneggiato. Tentativi di due baleniere di trainarla non furono coronati da successo e lì rimase. Durante la II Guerra mondiale, data la scarsità di navi, fu proposto di rimetterla in acqua e requisita. Non vi furono seguiti. Appartiene alla Corona britannica. Reca ancora i tronchi maggiori dei tre alberi e il bompresso.
  • Duclos Head: Resti di molo galleggiante; in questo sito Duncan Carse passò alcuni mesi, negli anni 50’. La sua capanna fi trascinata in mare, all’inizio del suo soggiorno, da un’onda anomala. Carse sopravisse.
  • Locomotiva a Ocean Harbour: a scartamento ridotto (60 cm), utilizzata per la gestione della stazione baleniera.
  • Bacino galleggiante a Grytviken; lungo 46 metri. Allungato di 7 metri nel 1948/1949. In funzione dal 1928 al 1965. Affondato nel 1973. Non fotografato.

Relitti alle Falkland (tutti nella baia di Port Stanley)

  • Lady Elisabeth: tre alberi con scafo in ferro, con armamento a “Bark”, costruito dal cantiere navale R. Thompson & Sons di Sunderland (UK) nel 1879 per l’armatore John Wilson. 1.208 tonnellate, lungo 68 metri. Successivamente venduta ad un armatore dell’Isola di Man, quindi ad un armatore norvegese. In navigazione da Vancouver e diretta a Baia Delagoa (Mozambico) con un carico di legname, riportò seri danni nel 1913 mentre doppiava il Capo Horn. Giunse a Port Stanley il 13 marzo 1913, rimorchiata dal Samson (vedi sotto). L’entità del danno non giustificava la riparazione, e fu pertanto abbandonata a Port Stanley e utilizzata come deposito galleggiante fino al 17 febbraio 1936, quando si arenò nella Baia Whalebone, vicino al Plym. Conserva i tronchi maestri dei suoi tre alberi.
  • Plym: rimorchiatore in ferro costruito nel 1903 dal cantiere Willoughby Bros. di Plymouth (UK), lungo 15 metri, capace di raggiungere 8 nodi. Nel 1930 si arenò nella baia di Port Stanley, vicino alla Lady Elisabeth.
  • Samson: rimorchiatore a vapore, con un motore a triplice espansione, costruito nel 1888 presso il cantiere Earles & Co.  Hull (UK). Lungo 30 metri, giunse alle Falkland il 2 luglio 1900.  Abbandonato nella baia di Port Stanley, vicino alla Lady Elisabeth.
  • Barche in legno: diversi scafi sono spiaggiati nella parte orientale della baia di Port Stanley, a Canache.
  • Golden Chance: peschereccio a vapore lungo 25 metri, varato a Lowestoft nel Regno Unito nel 1904 presso il cantiere navale John Chambers Ltd. Nel 1949 giunse alle Falkland, acquistata dalla Colonial Development Corporation per operare presso la South Atlantic Sealing Company. La compagnia cessò di esistere nel 1952. Arenato nella baia di Port Stanley, nei pressi di Canache.
  • Gentoo: peschereccio; risulta essere stato ammodernato nel 1926. Giunse alle Falkland nel 1927, vi operò fino al 1965. Nel 1982, essendosi riscontrata una via d’acqua nello scafo, fu abbandonato vicino al Golden Chance, Canache.
  • Egeria: tre alberi “bark” costruita a Quebec nel 1851. In navigazione da Londra al Callao (Perù), con un carico di cemento e carbone, fu respinta dal Capo Horn. Rifugiatasi il 12 settembre 1872 a Port Stanley, fu utilizzata come chiatta; successivamente, incorporata nel molo della East Jetty. Fotografato il fasciame.
  • Great Britain: disegnata da Isambard Kingdom Brunel, il più grande architetto navale, ferroviario e civile dei tempi moderni. Considerata la prima nave “moderna”, varata a Bristol nel 1843. Destinata al traffico regolare nel Nord Atlantico. 3.280 tonnellate, lunga 87 metri, scafo in ferro. All’epoca, la più grande nave esistente. Era la prima nave a elica con paratie stagne, doppio fondo, e il timone compensato. Nel 1852, dopo una serie di modifiche, fu utilizzata sulla rotta dal Regno Unito all’Australia. Nel 1876 fu ritirata dal servizio. Nel 1882, dopo un cambio dei motori e un nuovo armo come fregata, tornò a percorrere la rotta dell’Australia. Nel 1886 giunse a Port Stanley, dopo essere stata seriamente danneggiata nel tentativo di doppiare il Capo Horn. Fu utilizzata come deposito di lana, granaglie e carbone. Durante la Prima Guerra mondiale fu utilizzata come rifornitore per le navi inglese che presero parte alla Prima battaglia delle Falkland. Il 12 aprile 1937 fu abbandonata nella Caleta Sparrow. Successivamente, fu collocata su una chiatta e riportata a Bristol, dove giunse il 22 giugno 1970, dopo 84 anni alle Falkland. Il tronco maestro del suo albero di mezzana è esposto sul lungomare a Port Stanley. Una delle tre navi che “ce l’ha fatta”……

Solo due altre navi, a mia conoscenza, sono state recuperate e riportate a Nord: lo Wavertree, fregata inglese in ferro costruita nel 1885, rifugiatosi nel 1910 a Port Stanley. Rimorchiata a Punta Arenas, dove fu utilizzata come chiatta fino al 1948. Rimorchiata a Buenos Aires. Acquistata nel 1968 dal South Street Seaport Museum di New York, e da allora al Molo 16, Fulton Street, New York; è il più grande tre alberi tuttora esistente. Inoltre, la nave finlandese a quattro alberi Fennia, ex Champigny (costruita a Le Havre nel 1902), utilizzata come nave scuola, danneggiata da mare forza 10 il 3 maggio 1927 al Capo Horn, rifugiata a Port Stanley, trainata nel 1967 a Montevideo, con l’intenzione di rimorchiarla a San Francisco. (?)

  • Actaeon: corvetta canadese di 561 tonnellate. Costruita a Miramichi, New Brunswick, nel 1838. In navigazione da Liverpool a San Francisco con un carico di carbone, dopo 154 giorni di navigazione tenta di doppiare il Capo Horn. Seriamente danneggiata, si rifugia a Port Stanley il 27 gennaio 1853. Utilizzata come frangiflutti, vi è stata ormeggiata per decenni la Charles Cooper (vedi sotto). Non fotografata: non ne rimane nulla.
  • William Shand: schooner di 432 tonnellate costruito nel 1839 a Greenock, Scozia. Nel 1859, in navigazione da Liverpool a Valparaiso con un carico di carbone, respinta una prima volta dal capo Horn, arriva a Port Stanley il 1° febbraio 1859. Ripartita per il Capo Horn e nuovamente repsinta, torna definitivamente a Port Stanley, gravemente danneggiata il 16 aprile 1859. Abbandonata dopo essere stata utilizzata per qualche anno come deposito galleggiante. Incorporata nel molo della East Jetty. Non fotografata: non ne rimane nulla.
  • Margaret: Schooner inglese di 615 tonnellate, costruito nel 1836 a Halifax, Nuova Scozia, Canadà. Dopo un tentativo fallito di doppiare il Capo Horn da est a ovest - venendo da Liverpool e diretta a Valparaiso, carica di carbone e palle di cannone – si rifugia l’11 agosto 1850 a Port Stanley. L’entità del danno non giustificava la riparazione, e fu pertanto abbandonata a Port Stanley e utilizzata come deposito galleggiante. Abbandonata qualche anno, fu utilizzata per il riempimento del molo governativo. Solo alcuni resti sono visibili: non fotografata.
  • Jhelum: Schooner inglese in legno di 428 tonnellate, lungo 37 metri, costruito a Liverpool nel 1849 dal cantiere Steele & Sons. Scafo ricoperto di rame. In navigazione da Callao (Perù) a Dunkerque con un carico di guano nel 1870, era sovraccarica, ed ebbe difficoltà a doppiare il Capo Horn. Giunse a Port Stanley il 18 agosto 1870. Date le sue condizioni precarie, l’equipaggio si rifiutò di riprendere il mare. Il verdetto fu confermato da Ufficiali della HMS Galatea. Abbandonata il 2 marzo 1871, dopo essere stata utilizzata per qualche anno come deposito galleggiante, soprannominata “l’Arca di Noè”. La nave era il miglior esemplare di “East Indiaman” costruito nel Regno Unito che si conosca. Appartiene alla Corona britannica. Non fotografata: non ne rimane nulla.
  • Snowsquall: clipper americano (“Extreme Clipper”) costruito nel 1851 a Cape Elisabeth per l’armatore Charles R. Green di New York. 48 metri, 742 tonnellate. Nel 1854, in navigazione da New York a San Francisco, dopo 59 giorni di mare tenta di doppiare il Capo Horn; viene respinta, e gettata sulla costa nello Stretto di Le Maire. Danneggiata, si rifugia a Port Stanley il 2 marzo 1854. Poiché le riparazioni erano troppo care, fu venduta sul posto. Trasformata in deposito coperto. Nel 1987, un frammento della prua, lungo circa 12 metri, fu trasportato allo Spring Point Museum, a South Portland, USA. Non fotografata: non ne rimane nulla.
  • Charles Cooper: Corvetta americana in legno di 977 tonnellate, lunga 50 metri, costruita nel 1856 a Black Rock (Connecticut). In navigazione nel 1866 da Liverpool a Melbourne con un carico di carbone, danneggiata, si rifugia a Port Stanley il 25 settembre 1866. Poiché le riparazioni erano troppo care, fu venduta sul posto. Trasformata in deposito coperto, soprannominata “l’Arca di Noe”. Nel 1968, fu acquistata dal South Street Seaport Museum di New York per esservi trasportata ed esposta, insieme ad altre navi, sul Molo 16. Non se ne fece nulla. La sua prua, tagliata e salvata nel 2003, riposa in un deposito vicino a Canache, nella parte est della baia di Port Stanley, accanto a containers e resti della guerra del 1982. Accatastate nelle vicinanze, parti del fasciame e delle ordinate. Lo sbovo (argano orizzontale di prua) è presso il Museo di Port Stanley.
  • Afterglow: corvetta a vapore armata, giunse alle Falkland nel 1920 per proteggere le Fur Seal Rockeries, nella Penisola Frecinet. Prese parte alla Seconda Guerra mondiale come HMS Afterglow. Arenata nella baia di Port Stanley. Di lei rimane visibile solo la caldaia.

NB: Altri relitti e resti di relitti costellano le coste delle Falkland. È molto difficile localizzarli e raggiungerli.
NB2: arrivederci al rientro dalla prossima spedizione fotografica……



    Bombard, Moitessier, Chichester, Conrad, Groser, Blyth, Smeeton, Stern-Veyrin, van de Wiele, Williams, Dumas, Smeeton, Janichon/Poncet, Tabarly, van God, Hervé, Auboiroux, Kersauson, Blyth, Knox-Johnson, Blackburn, Hiscock, Carozzo, Slocum, Colas, Shackleton, Rose, Guzzwell, Hansen, Davison, R. Dana, Bardiaux, O’Brien, Bernicot, Severin, Lundy, Mermod, Dugard, e tanti altri…


                  In appendice, indicazioni sui relitti fotografati in Georgia del Sud e alle Falkland.