Memorie



Percorsi della memoria

di Gianfranco Verderame

In un libro di un noto scrittore austriaco degli inizi del ‘900 mi sono imbattuto in due passaggi che mi sono sembrati molto significativi. Il primo: “Funzionari, diplomatici e militari, da che mondo è mondo, godono dell’immunità. Ed è giusto! Perché la responsabilità che grava sulle loro spalle è talmente fuori dell’ordinario che non si può non tenere conto anche del fatto che spesso ignorano completamente le circostanze in cui si trovano ad operare.”
Lasciando da parte il riferimento all’immunità, nel quale mi sembra di leggere un pizzico di malcelata ironia, quasi che nel suo pensiero essa si risolva in una sorta di “licenza di sbagliare”, quella che l’autore tratteggia è una condizione nella quale può trovarsi chiunque: tutta la nostra vita si svolge nel confronto con la realtà che ci circonda e di cui ignoriamo molti aspetti, ma che dobbiamo saper leggere ed interpretare per non farcene sopraffare.


A maggior ragione ci si trovano quindi coloro per i quali l’interpretazione della realtà, oltre ad essere una condizione, per così dire, esistenziale, è anche parte della loro attività professionale.  Come i diplomatici, per i quali l’analisi delle situazioni nelle quali si trovano ad operare e la comprensione della realtà che li circonda è parte integrante del loro lavoro. E non solo nel servizio all’estero, ma anche all’Amministrazione centrale. E poiché le analisi dei diplomatici non servono solo per orientarsi ciascuno nella realtà nella quale si muove, ma per dare a chi di dovere gli elementi di conoscenza e di valutazione in base ai quali prendere una decisione, la loro responsabilità è in questo incomparabilmente maggiore.


Il secondo: “Spesso coloro che hanno il compito di decidere, a furia di correre dietro ai dettagli perdono la visione d’insieme… e non riescono a sentire sotto i propri piedi il corso possente e sotterraneo degli avvenimenti reali.”
Ed è questo un avvertimento mai come oggi attuale, quando con lo sviluppo impetuoso dei nuovi mezzi di comunicazione siamo bombardati da dettagli e da spezzoni di informazione che spesso ci risulta difficile comporre in un quadro d’insieme e che, invece di rendercele più chiare, contribuiscono a confonderci le idee.
Mi è venuto allora di pensare che nel corso della mia carriera mi sono trovato spesso nell’una o nell’altra delle due condizioni. Ho vissuto, cioè, sia l’esperienza di realtà che resistevano a farsi interpretare per l’opacità dalla quale erano circondate, sia quella di dover inserire le informazioni di cui disponevo in un quadro il più possibile coerente, senza farmi fuorviare da dettagli più o meno significativi. E spesso le due condizioni si sono prodotte contemporaneamente.


Questo, in particolare, mi è successo in Spagna, dove ho avuto la mia prima esperienza di lavoro diplomatico all’estero negli ultimi anni del franchismo e del passaggio alla democrazia.


Era quello il periodo in cui tutti si interrogavano su cosa sarebbe successo in Spagna una volta che Franco fosse morto e molti temevano che si sarebbe aperto un periodo di turbolenze più o meno gravi e di destabilizzazione.
La Spagna di allora presentava entrambe le caratteristiche di cui sopra: da una parte un regime opaco e difficilmente penetrabile, dall’altra una società civile ed intellettuale molto vivace, nei limiti – ovviamente – di quello che il regime permetteva.


Allora i nostri rapporti con gli ambienti governativi erano molto limitati, ed a maggior ragione lo erano per me che ero l’ultima ruota del carro. Mi ritagliai quindi un mio spazio di manovra nei contatti con gli ambienti intellettuali del paese e con quelli dell’opposizione democratica e della stampa di opinione.


L’Ambasciatore mi lasciava fare, ma mi invitava spesso alla prudenza.


Si era costituito nel frattempo un gruppetto di giovani funzionari delle altre ambasciate, tra cui anche quella americana. Ci incontravamo spesso e ci scambiavamo valutazioni e previsioni. Ricordo di colleghi che, anche grazie alla maggiore vicinanza istituzionale con i rispettivi servizi di intelligence operanti nel paese, conoscevano molti più “dettagli” di quelli di cui disponevo io, eppure non sempre la quantità di informazioni si traduceva in migliore conoscenza da parte loro della realtà, né in un contributo particolarmente significativo alla nostra conoscenza.  Imparai allora che non tutti i dettagli contano alla stessa maniera e che è più importante saper cogliere i segnali “sintomatici” che correre dietro ad una pluralità di dettagli.


Prevaleva comunque nelle nostre analisi, e certamente nella mia, la sensazione che nella società spagnola, grazie anche alle aperture al mondo esterno che il franchismo aveva tollerato (e risiedeva in questo una delle principali differenze con l’arcigno vicino portoghese) ed in alcuni casi favorito (si pensi al settore del turismo), si fossero via via create le condizioni per un trapasso se non ordinato, certamente non traumatico al dopo Franco. Esisteva e si rafforzava una borghesia i cui interessi non erano certo quelli della rivoluzione, ma nemmeno quelli dell’autoritarismo e della chiusura. C’era un fermento intellettuale che lasciava ben sperare. Ed anche all’interno del regime si coglievano eloquenti segnali di riposizionamenti futuri. E con il senno di poi anche la parabola seguita dall’erede al trono una volta diventato Re (lasciai la Spagna alla vigilia delle prime elezioni libere dopo la morte di Franco) mi appare coerente con i segnali che avevo percepito. 


Quando approdai a Budapest da Ambasciatore molti anni erano passati dalla giovanile esperienza spagnola, e nel frattempo le vicissitudini della carriera mi avevano portato a Vancouver e due volte a Bruxelles, una alla Rappresentanza presso l’Unione Europea e l’altra in Commissione come Capo di Gabinetto del Commissario italiano, passando per vari incarichi al Ministero a Roma e due volte a Palazzo Chigi prima con Andreotti e poi con Prodi.


L’Ungheria di quegli anni era appena entrata nella NATO e si apprestava ad entrare nell’Unione Europea. Era un paese affascinante per la cultura diffusa che esprimeva e per la vivacità della sua gente, ma profondamente diviso nella lettura della sua storia recente, a cominciare dall’interpretazione degli avvenimenti del ‘56. Nell’alternanza fra il governo Orban al potere quando arrivai e quello socialista che gli successe poco dopo mi parve di vedere il disorientamento di un popolo per il quale la libertà riconquistata in campo politico non si era ancora tradotta in vantaggi economicamente apprezzabili e soprattutto equamente distribuiti. Non avevo altra chiave di lettura per spiegarmi il ritorno al potere degli eredi del comunismo. Per un certo periodo mi parve che quell’alternanza giustificasse le tesi di quanti nella rivolta del ‘56 avevano visto - e vedevano tuttora - l’anelito ad una rifondazione del socialismo piuttosto che il suo totale rifiuto. Ma poi il pendolo cambiò nuovamente direzione, anche perché i socialisti non dettero buona prova di sé e delle loro capacità di governo nemmeno in quella occasione. In questo quadro, gli elementi unificanti mi apparivano, da una parte, la caparbia volontà di difendere l’identità e l’autonomia riconquistate e dall’altra il ricordo delle passate grandezze della nazione magiara, reso ancora più struggente dalla percezione dei torti  subiti da un paese che per ben due volte nel XX secolo si era trovato sul fronte sbagliato della storia e nel quale la ferita del Trattato di Trianon, con la perdita della Transilvania e il ridimensionamento della Grande Ungheria, bruciava ancora. Tutti elementi che andavano nella direzione di quel nazionalismo che abbiamo poi visto riemergere con forza nella contestazione alla sovranazionalità della costruzione europea. Anche per questo la forte connotazione nazionalista che esprime l’Ungheria di oggi non mi ha sorpreso più di tanto. In fondo, quella ungherese è la stessa parabola che hanno seguito altri paesi dell’Europa dell’est, a cominciare dalla Polonia.


L’Algeria mi apparve un paese di contrasti. Il sistema era formalmente democratico, ma il suo centro incontrastato restava il blocco sociale che, con una espressione che dà bene il senso della opacità della struttura, gli algerini chiamano “le pouvoir”. Questo blocco, fondato sullo stretto rapporto fra l’elemento militare e la struttura politica del Fronte che aveva condotto la guerra di liberazione nazionale, si era andato consolidando nel tempo attraverso quello che un noto politologo ed economista algerino definiva l’“authoritative bargain” tra il rigido controllo della vita politica, pur nel quadro di un ordinamento formalmente democratico e pluralista, e la distribuzione dei frutti della rendita energetica in chiave di “calmiere” delle rivendicazioni sociali.
Questa realtà mi poneva diversi problemi di interpretazione.


Innanzitutto essa sembrava smentire la narrativa corrente secondo la quale un paese di cultura e religione islamica è radicalmente incompatibile con gli istituti della democrazia formale. Lo è certamente nelle manifestazioni più estreme dell’islamismo, e proprio l’Algeria lo aveva sperimentato nel decennio nero del terrorismo, ma l’equazione non è necessariamente valida in ogni circostanza, e il caso algerino lo confermava.  Quello che restava invece vero è che la forma è una cosa, la sostanza un’altra: e nella sostanza la democrazia algerina mostrava non pochi limiti. Ma questo dipendeva solo in parte dai condizionamenti religiosi, ed anche quelli non si poteva escludere che, nel contatto con altri modelli culturali, avrebbero potuto progressivamente perdere di influenza. Durante la mia permanenza ad Algeri, ad esempio, la legislazione relativa allo status giuridico della donna fece qualche timido progresso grazie soprattutto alle pressioni delle associazioni per i diritti delle donne, molto attive in un paese islamico nel quale la presenza femminile nella vita politica e nelle professioni era già molto estesa. Ai partiti islamici (e non islamisti, perché anche per loro la lezione del terrorismo aveva funzionato, inducendoli ad accettare la dialettica democratica pur cercando ovviamente di condizionarla, ma attraverso le urne) questo non piaceva, ma non erano i soli a decidere. La forza delle evoluzioni dell’opinione pubblica vale più di qualsiasi disquisizione teorica sul rapporto religione-politica nell’Islam. Spesso anche per un paese islamico il pericolo non viene tanto dalla asserita impossibilità di distinguere i due ambiti, ma da altre circostanze che anche noi occidentali conosciamo bene, e prima di tutte il potere delle oligarchie. Mai come in Algeria mi convinsi che lo sviluppo culturale e politico dei popoli ha i suoi ritmi, che non è saggio voler forzare oltre un certo limite, e che la democrazia cresce in funzione della crescita culturale.


Da qui il secondo problema: in che misura si poteva prevedere che prima o poi la logica stessa della democrazia, unita allo sviluppo economico e culturale - che restava però ancora grandemente squilibrato - si sarebbe affermata fino al punto di erodere le basi del potere del blocco dominante? E se questo fosse accaduto, quali ne sarebbero state le conseguenze? In altre parole, il sistema dava veramente quelle garanzie di stabilità che i miei interlocutori a livello ufficiale mi decantavano ogni volta che veniva in discussione l’importanza per l’Italia della solidità algerina riguardo alle forniture energetiche, per noi così importanti, rispetto alle incertezze libiche? Il quadro mi appariva - e mi appare tuttora - in bilico: alle incertezze sulla successione a Bouteflika - che è il vero garante della solidità del blocco dominante - ed alla debolezza di un sistema economico ancora in massima parte dipendente dalle fonti energetiche si contrappone nella coscienza del popolo algerino il trauma del terrorismo, che contribuisce a spiegarne la refrattarietà verso ogni sommovimento che potrebbe mettere in crisi una “normalità” faticosamente recuperata dopo i lutti e le tragedie del “decennio nero”. Lo si è visto poi concretamente nel periodo delle “primavere”.


Per mia fortuna, quando giunsi in Algeria le polemiche sull’interruzione forzata del processo elettorale e sulle origini del terrorismo, se cioè, ed in quale misura, l’esplosione del secondo potesse essere anche conseguenza della prima, si erano ormai placate. La questione, che per qualche mio collega aveva avuto un contenuto molto concreto, stante la diversità di vedute al riguardo anche tra gli ambienti politici e governativi italiani, racchiuse nella sfortunata iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, aveva quindi per me un contenuto prevalentemente di analisi a posteriori. La lettura che maturai nel contatto con gli algerini di diversa estrazione sociale e culturale andava unanimemente nel senso della ineluttabilità della sospensione del processo elettorale come unico mezzo per impedire l’instaurazione nel paese di un regime islamista che avrebbe negato anche quel tanto di libertà che l’Algeria aveva conquistato con la guerra di liberazione nazionale. Ma devo riconoscere che la mia capacità di acquisire elementi di valutazione su un tema che aveva fatto versare fiumi di inchiostro e che, ad un esame appena un poco più approfondito, appariva per certi versi ancora controverso, risentiva molto delle limitazioni anche fisiche che mi erano imposte dalle esigenze di sicurezza alle quali dovevo sottostare in una situazione del paese ancora non completamente pacificata.


Resta il fatto che alla circostanza di essere stato il primo paese mediterraneo a subire l’urto massiccio del terrorismo islamista l’Algeria di oggi affida molto della sua immagine sul piano internazionale e la prospettiva di una transizione non necessariamente traumatica, quando sarà il momento, al dopo Bouteflika.
Dove si può arrivare partendo da un romanzo...!

 


Maggio 2017